10.3.06

Dogville



Ostracismo culturale a chi leva voci senza aggiungere nulla, esilio volontario a chi contraria l’estetica comune senza essere egli stesso un canone convincente. Un tristo fato (quinto grado) per chi sta a dissentire. Dunque non proseguite a leggere questa recensione se non riuscite a perdonare un fallito.
Dogville è una brutta bestia, e soprattutto un brutto film.
Messinscena brechtiana dicono, come per sottolineare l’esemplarità. Uno schema criptomanicheo molto vacuo e compiaciuto, dico io.
Attori dolciastri, dialoghi postintellettuali, e il doppiaggio che avalla i tanti stereotipi. I triti temi della maledetta società degli young americans, smerdati fino ai titoli di coda - dove vengono mostrate senza vergogna immagini di atrocità varia - sono resi ancor meno urticanti dal solito razzismo diffuso, che ricorda quello di chi riesce a vedere i quadri in 3D rispetto a chi non è iniziato. Un po’ come American Beauty, una specie di prontuario di cinismi da salotto e perline sagge da sciorinare ai parties.
Chi si fa eccitare dalla storia raggiungerà pure un climax orgasmico nella carneficina finale, ma io e vostra nonna, che siamo frigidi a questi spettacoli, osserviamo un po’ schifati il fondo cieco entro cui si perdono le continue furberie spacciate per “trama” da uno snob.
Alla fine un cane guarda il cielo e dice non chiedetelo a me, sono solo un cane, e anche se potessi non vi direi nulla.
Grazie, Lars. Mi hai fatto amare i cani.


Lars Von Trier, 2003

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