16.10.06

Meccaniche amorose


Una macchina nuova funziona bene, stupisce l’astante. Il suo automatismo fa pensare ad un’intelligenza fredda, non emotiva, e per questo controllata e superiore.
La macchina può sembrare un’entità super partes, perché mima le azioni degli esseri viventi senza vivere di per sé.

È il super-io postmoderno, dal momento che ogni certezza sembra un discorso spezzato tempo fa e lasciato colare nei tombini.
È normale dunque che gli esseri umani, sempre imprecisi e mediati dai falsi circuiti, vogliano aspirare a quel protofenomeno: l’intelligenza senza emozione.
I canti di amore per le macchine sono in genere struggenti, suscitano inquietudine e stringimento, perché l’amore per una macchina è il simbolo degli amori impossibili.
Il film nel film contenuto in “2046” di Wong Kar-Wai è un lamento sonoro e visivo molto commovente. Le emozioni, protagoniste indiscusse della pellicola, rappresentano nella trama un’evoluzione dell’intelligenza artificiale, e nello stesso tempo (com’è ovvio) un punto debole. Infatti ogni sistema nuovo, essendo avanguardia, è ancora poco evoluto, è sempre prototipo di qualcosa di più raffinato ed esatto.
In aggiunta, risente del principale difetto delle macchine: l’usura e la non-longevità (il parallelismo con la vita umana è ancora più lancinante).
Nel film le emozioni delle macchine, col tempo, diventano “differite”, cioè ritardate. Amare una macchina diventa dunque abolire la contingenza temporale, oltre che la convergenza della specie.
Una lezione ben anticipata dallo sconvolgente e sublime poema di “Blade Runner”.
L’amore di una macchina, o per una macchina, è un bug in un sistema progettato per altro. È un malfunzionamento. Chi ha a che fare con le macchine lo sa, la macchina prima o poi smette di funzionare, o comunque diventa obsoleta. Non c’è scampo.


I Kraftwerk propongono nel 1978 uno dei loro capolavori più longevi, chiamato The Man Machine, imperniato su un’estetica robotizzata e fascinosamente futurista, fin dalla copertina, ispirata al costruttivista tedesco El Lissitzky. Il quartetto propone un’iconografia più che un vero e proprio manifesto.
Il rapporto uomo/macchina è visto non come fonte di alienazione, ma come base di una relazione creativa e di reciproco accostamento. E il chant d’amour è mantrico, ciclico, eterno, è totale. Ascoltare i quasi sei minuti della versione album della title-track per credere.


Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
Man Machine, pseudo human being

Man Machine, super human being
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being

Kraftwerk, 1978

2 commenti:

Jacko83 ha detto...

ho ritrovato qualcosa che avevo perso nel mio cervello.

Anonimo ha detto...

Uno dei miei gruppi preferiti.