2.7.13
6.6.13
senza titolo
Per ogni animale sbalzato dal suo nido
e infranto nel suo meccanismo d’amore.
Per tutte le seti che non furono saziate
fino alle labbra spaccate alla caduta
e all’abbaglio. Per i miei fratelli
nelle tane. E le mie sorelle
nelle reti e nelle tele e nelle
sprigionate fiamme e nelle capanne
e rinchiuse e martoriate. Per le bambine
mie strappate. E le perle nel fondale
marino. Per l’inverno che mi piace
e l’urlo della ragazza
quel suo tentare la fuga invano.
Per tutto questo conoscere e amare
eccomi. Per tutto penetrare e accogliere
eccomi. Per ondeggiare col tutto
e forse cadere eccomi.
che ognuno dei semi inghiottiti
si farà in me fiore
fino al capogiro del frutto lo giuro.
Che qualunque dolore verrà
puntualmente cantato, e poi anche
quella leggerezza di certe
ore, di certe mani delicate, tutto sarà
guardato mirabilmente
ascoltata ogni onda di suono, penetrato
nelle sue venature ogni canto ogni pianto
lo giuro adesso che tutto è
impregnato di spazio siderale.
Anche in questa brutta città appare chiaro
sopra i rumorosissimi bar
lo spettro luminoso della gioia.
Questo lo giuro.
Mariangela Gualtieri
9.4.13
L'assenza è un assedio
L'ASSENZA È UN ASSEDIO (Ciampi - Marchetti)
Una vita a precipizio
l'esistenza senza un senso
e la discesa niente ritorno
poi la salita viene crudele
come un miraggio
mentre il giorno tramontando
lascia un solco...
Le parole giocano strane
e il tramonto guarda in silenzio,
esperienza forse è in mano di altri,
poi la memoria, nascondendo il presente,
diventa ladra...
Passeggiate tra milioni di sguardi
tutti folli la domenica stanchi
ed il riposo rimandato a un domani,
nell'estate è bello un bagno
tutti soli...
Nella notte la tentazione
di sedersi per non più rialzarsi
ma poi per caso da una sottile fessura
si ripropone con due occhi tristi
un problema eterno.
Amore
amore
va la vita, va, amore
va la vita, va, amore
va così la vita, amore
va, la vita va.
17.12.10
Embryonic

Circa un anno fa i Flaming Lips divulgavano il doppio CD Embryonic (soliti Echoes of Pink Floyd), con la copertina ricoperta di pelliccia. Un parto simulato, dunque, non umano certamente, forse di qualche animale mitologico da esperimento, forse semplicemente di una mente overstated.
Ruvido ma estetizzante, apparentemente meno lezioso dei lavori precedenti, ma stucchevole a tratti, il disco è un singulto ai confini della realtà emesso da una scimmia lanciata nello spazio.
Tra pictures of jap girls in sintesi e Steve Hackett che affiora nelle parti vocali (al solito goffe) c’è anche un’eco di Tomita che fa i Pianeti di Holst, a fregiare un viaggio allucinante nel cosmo (interiore?), segni zodiacali compresi (che orrore le stelle a forma di scorpione, o di sagittario! finalmente qualcuno punta il dito su quelle minacce che ci sovrastano! Come pesano quella vergine e quella bilancia enormi, totali, simboli sovrastanti grevi e tremendi!).
Il risultato, come tutte le scorze, è duro. Il suono una parete metallica, la melodia una filigrana diafana, il ritmo un battito disperatamente elettrificato.
I cattivi sosterrebbero che il diavolo è nei dettagli: nell’apparente vistoso mono-tono, cioè, si nasconderebbe il solito bad trip secco di idee (ed essendo i F.L. dei furbetti questo pensiero è anche lecito). Ma i buoni sanno che la sincerità la maggior parte delle volte è fraintesa .
A riprova della buona fede dell’opera ci sono l’ensemble poco accattivante, l’incedere marziale e antipatico, la ciclicità ossessiva dei temi e delle figure musicali, il tessuto compatto (quasi spugnoso), e una miriade di richiami patetici per l’orecchio saggio.
Questa piccola Space Odyssey si colloca in definitiva tra le opere piene di difetti ma dignitosamente belle, lievemente auto-iconoclasta e dunque fredda, ma piacevole, come una gelata di prima mattina, con le belle foglie di ghiaccio sui vetri, quelle che ci dispiace lavare via con l’acqua calda e coi tergicristalli della partenza coatta - quando cioè faremmo volentieri un giro nello spazio anziché accendere l’auto e andare a lavorare.
9.4.10
Vivere in Italia oggi
27.11.09
Il sole




Il sole.
Il sole brucia, se te lo mangi.
Il sole nelle immagini antiche ha gli occhi, ma ha l’espressione indifferente. Lo si dipinge in giallo, ma non lo è. È enorme, e potente. Da lui dipende la vita sulla terra. Ho paura di lui.
Quattro lettere, in inglese e in spagnolo tre. Concetto base, tributo ovvio alla nostra dipendenza.
Non puoi guardare il sole, o rimani cieco.
Insolazione. Si può anche morire.
È una palla di fuoco, le bestie hanno paura del fuoco, e se mi cadesse addosso un suo pezzo microscopico?
Semele chiese a Giove di mostrarsi a lei in tutta la sua potenza, e Giove la incenerì con il suo fulgore.
Al sole si dovrebbe stare tranquilli, ma la tigre al sole è micidiale.
Il sole è depressivo.
Il sole bambino, paffuto… odio il sole! Il Sole. La vittoria, l’elemento maschile (ma perché?), la forza. Come se non ci fossero già troppe icone.
Corpo celeste incandescente, pericoloso.
Ustioni.
Orribile sole, sole nero, sole malato, sole radioattivo.
Il mondo sta tranquillo finché c’è il sole, i bambini giocano al sole. Il sole su un prato, magari tangente e inclinato fa brillare i verdi e i gialli. Ma io sono stato abbandonato al sole.
Ragazzi qui si va fuori tema.
Ditemi l’immagine più spaventosa che vi viene in mente.
Il sole!
Al sole associo un colpo di gong assordante. Sì, assordante, come lui è accecante e bollente, anche il suono mi uccide.
Sogno un sole enorme, che copre tutto l’orizzonte. Di notte la terra si è avvicinata troppo, e ora non si sa più dove guardare, il sole è dappertutto.
Icaro e le ali di cera.
Lucifero che cade dal sole verso la terra nera, e poi giù, a sassata.
Maledetti dal sole. Quanti ce ne sono?
Il sole è misterioso come tutto il resto, ma è tutto nascosto nella sua faccia chiara. Non ha lati oscuri fuori di sé. È un oggetto macabro ma luminoso, dunque subdolo.
Normale avere paura del sole.
La luce del sole non cambia i lineamenti del diavolo.
18.11.09
Never For Ever

Mai e per sempre, due categorie infantili subito smorzate dalla neomediocrità (quella dell'ergonomia, della pseudo-maturità, del progressismo-puah, della nuova società), a volte tornano nei cervelli sensibili.
Perché, nonostante da sempre tutti ci costringano a pensare che la verità sta nel mezzo ecc. ecc., mai e per sempre sono invece due categorie concretissime seppur estreme.
La termodinamica li esclude quasi sempre, ma nella vita (che è altro, benché possa essere spiegata dalla termodinamica nei suoi tratti decisivi) esistono.
Che importa se poi l'obiettività deve metterci per forza un 'quasi' davanti. Domani cambieranno anche gli avverbi, sicuramente; questo universo sta irrancidendo, man mano che invecchia. Ma il messaggio resta: mai e per sempre esistono.
Si diceva però che sono categorie 'infantili' (combini tanti guai, non smetti proprio mai - canto sempre una canzone - C. D'Avena), e questa è una semplificazione. Non deve fuorviare la presenza del nuovo nel discorso. I bambini infatti, che del nuovo sono l'incarnazione più evidente, non sono mai tanto innocenti da assurgere a indicatori di processo. Non possono essere depositari della fiducia cieca nel mai e per sempre. I bambini, e che Mediaset non se la prenda, sono mostruose deiezioni consapevoli di adulti ipocriti, e il loro uso di mai e per sempre è solo un riflesso furbastro. I bambini non ci credono davvero a mai e per sempre. Sono gli adulti che si vergognano ad ammettere che ci credono (ma perché, se esistono?), dunque lo fanno dire alla D'Avena per i loro pargoli ottusi.
Adulti, basta con le disonestà: recuperate l'innocenza, e anziché generare figli orribili per aggiornare un corredo genetico difettato, aggiornate il vocabolario, e magari anche l'arredamento, l'abbigliamento, il parco macchine o i cellulari. Così la vostra ansia di infettare farà danno solo nel vostro salotto o nelle vostre tasche.
Voi non usate mai e per sempre per paura di invecchiare. Ma non temete, il vecchio sceglie bene i giovani da rovinare. Voi non siete sue vittime: sarete sempre giovani o giovanili senza dover necessariamente rinnovare la specie.
Già, lo sarete sempre.
Picture me and then you start watching,
Watching forever, forever,
Watching love grow, forever,
Letting me know, forever.
New Order, Ceremony - 1981
22.7.09
Estate
1.7.09
Macello

5.3.09
Pensieri in cantina

Una ragazzina, la figlia quattordicenne della portinaia, la raggiunse zoppicando. Il tram le aveva portato via una gamba, poverina, e lei era contenta quando poteva andare a raccogliere la palla per gli altri.
Nello scantinato regnava una semioscurità, lei tuttavia si accorse che in un angolo qualcosa si muoveva.
“Micetto!” disse la figlia dei portinai che aveva una gamba di legno. “Come sei capitato qui, micettino?”.
Raccolse la palla e, come poté, si allontanò veloce.
Il vecchio sorcio, brutto e puzzolente – lui che era stato scambiato per un micino – rimase interdetto.
Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo.
Prima di allora l’avevano sempre disprezzato, gli gettavano addosso del carbone oppure scappavano via spaventati.
In quel momento e per la prima volta gli venne di pensare a come sarebbe stato tutto diverso se il destino l’avesse fatto nascere gatto.
Anzi dato che siamo degli inguaribili scontenti – continuò a procedere nelle sue fantasticherie. E se fosse nato figlia della portinaia con una gamba di legno?
Ma quella era ormai una cosa troppo bella. Non riusciva neanche a immaginarsela.
István Örkény, 1968
22.12.08
Aristosseno

La colorizzazione, l’iridata purezza delle forze basilari della natura (le onde), come primordio dell’astrazione percettiva che strugge.
Come può la musica scalfire l’inconscio e, attraverso l’uomo, farsi motore? Come può un suono farsi fonte di energia?
E, per estensione, come può un’emozione farsi forza (un’entità cioè in grado di impartire un’accelerazione ad una massa)?
Perché un quadro astratto può far febbricitare, perché un film può cambiare il disordine molecolare di chi sperimenta?
Andando fino in fondo… se credo che un’emozione possa generare un lavoro (inteso come forza per spostamento), perché non credo in Dio, che rappresenta l’implicito volo dall’idea alla materia?
10.11.08
Finale per un racconto fantastico

– Mio Dio! – disse l’uomo. – Mi sembra che all’interno sia priva di serratura. Ci ha chiusi dentro tutti e due!
– Tutti e due no. Uno solo, – disse la ragazza.
Passò attraverso la porta e scomparve.
I.A. Ireland
18.9.08
Il lungo domani

Un mese prima della partenza si innamora, ricambiato, di Sandy, una giovane ricercatrice della NASA. Lo sbocciare del loro amore è già legato a un senso di perdita, e si compie con incosciente pienezza, dal primo incontro fino al momento della partenza. ‘Ti aspetterò, Doug… anche se sarò una vecchia con lo scialle e tu sarai ancora giovane’.
Questa la trama di “The Long Morrow”, ep.135 della stagione 5 del telefilm “The Twilight Zone” (Ai Confini Della Realtà).
Il finale, che non rivelo, porta a una riflessione sull’amore difficile, che a volte coincide con l’amore impossibile, e sull’imprevedibilità delle azioni umane perpetrate per contrastare un destino avverso.
La sinossi di una relazione è sempre secondaria al modo di sentire la relazione stessa. Può trattarsi di un amore scomodo, illogico e ingiustificabile, ma fa bene ricordare che è sempre la percezione del nucleo originale delle cose a determinare l’agio inatteso, tra tanti ostacoli.
Dunque Giulietta affronta il pugnale, Medea la colpa (anche il suo è un amore impossibile, quello di chi sceglie di essere odiato dalla persona amata) e noi percorriamo traiettorie forse più tenui, ma comunque simili nella tenacia.
Ecco perché l’episodio commuove (e la cornice fantascientifica rende le cose ancora più vaghe e poetiche), e convince che “c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada”.
Per amore si muore sempre, in senso figurato e no.
17.9.08
Le loup
14.5.08
First Utterance

Sin dalla copertina, il gruppo si voca al caos e alla mostruosità come forma espressiva necessaria.
I molti eccessi dell’opera sono volutamente raffreddati da arrangiamenti folk, e l’aria che si respira è sinceramente mistica, tale da spingere all’ascolto ripetuto, come un mistero che richiama a sé.
Addentrandosi nel bosco, l’incauta Diana e gli ascoltatori entrano in contatto col dio Comus, trionfo del bacchico non epico, elogio panico dell’istinto contro l’imperfezione di chi riesce a fuggire (The Herald, gli araldi che si fermano prima del bosco, e che, come i sette messaggeri di Dino Buzzati, recano notizie di fantasmi). È difficile schierarsi tra la vittima e il carnefice, in questo caso.
Scheda operativa: chi è posseduto da un demone deve cercare di fuggire? Nel think tank deve esserci per forza un posto per la catarsi? Come ci si può disintossicare dall'oscuro richiamo del male?
9.5.08

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
23.1.08
Iluminacja

L’angariato ricominciare, il crudele rimando ai sentimenti, che sono il facile rifugio di ogni peccato.
Dolorifica mancanza di dignità, straziante mondanità.
Per chi non è normale spegniamo una luce.
Traffici trascendentali, eterne diatribe di muffe incallite e facce impagliate in movenze segnate.
Spengo la luce al mondo con troppi soli e troppe sole.
Il disumano passo delle religioni furbette, l’infinita povertà dei ricchi di spirito, e le bellurie di chi non si può permettere neppure una visione politica, ma vive lo stesso. Buona notte all’indulgenza e a chi ride perché ha capito come si vive a ridosso delle cose. Fino alla morte.
L’eterno divenire, che poi non è eterno e non è divenire. La foresta delle ambizioni con le corde e le liane del bel pensiero e della produzione e le infinite uscite di sicurezza per tornare a casa. Lo sfascio della droga e di chi perde, e non risale. La scelta dell’immoralità.
Spegniamo la luce all’obesità senza immondizia, alla cultura senza colore, alle giornate piene di aria da rinnovare. Al buio ritroviamo l’abbondanza, la sicurezza delle cose che percepiamo. Possiamo dirci uguali, se non altro a noi stessi. Ogni pezzo di corpo uguale, ogni vestito.
La dignità torna ad essere commisurata a quello che siamo, e non a quello che è visibile. Riconoscersi unità nonostante le lacerazioni e i troncamenti. Nel buio la pacificazione delle menti.
Il gravissimo peso delle colpe non lavate, il sacrificio perso per mani distratte, il sentimento mal riposto in altari spioventi e in persone sfuggenti. Il dolore puro nei movimenti e nella ruota degli occhi, apparente e profondissima. La malattia e l’ineluttabilità del pianto dei bambini. L’inesorabilità delle leggi di ogni natura.
Spengo la luce al positivismo e alla ragione, perché nessuno ha ragione, e chiudo le imposte delle cose che non salvano, perché partorite nel travaglio della mente, e dunque corrotte.
L'inevitabile caos dei contatti falsi, l’insoffribile falsità del concetto di anima, la moltitudine che si propaga. Queste luci moleste conviene spegnerle una volta per tutte, perché tutti ci si riconosca parte di un sistema misterioso e mortale, e perché alla fine qualcosa di buono ritorni, e non solo la pazzia e la sostanziale solitudine cui tutti naturalmente tendiamo.
24.12.07
Moonage Daydream
5.11.07
A digiuno sull'erba
18.10.07
Omaggio sgraziato a Dino Buzzati

Non ci credo a te! Polla baffona! Da dove sei uscita?
DALLA NUBE DELL’INFANZIA! TU ORA DEVI AVERE PAURA…
Io non ho più paura di te, da un pezzo.
UAHAHAHAHAHAHAAAA!!!
Cambia strategia, faccia di culo! Mi fanno paura altre cose adesso.
QUANDO ERI PICCOLO TEMEVI CHE LE PERSONE INTORNO A TE POTESSERO TRASFORMARSI IN ORRIDI ESSERI ASSETATI DI SANGUE… CHE IO FOSSI TUA MADRE IMPOSSESSATA!
Senti, bella, le persone che conosco si sono quasi tutte trasformate in comunisti a pecora, beppe grilli, militari, spider pork, bastardi ovunque, liberali illuminati, tilacini estinti, collaborazionisti, lecchini, burini, babbuini e sderenati. Non è questo che mi fa paura… Nice try…
ALLORA CHE NE DICI DEL MIO COLORITO VERDE? NON È NORMALE, AMMETTILO…
Mi fa paura la dipendenza, la fitta rete di fili che legano le COSE alle cose e alle persone e le PERSONE alle cose e alle persone. Entrare in questa rete è quasi irreversibile, per chi è in cerca di qualcosa. Tu, ad esempio, cosa cerchi? E da cosa dipendi? O da chi?
IO SONO SOLA, E SO ESSERE CALDA.
Puoi essere tutto e il contrario di tutto.
CIOÈ NIENTE?
No, il contrario di tutto non è “niente”. Lascia perdere…
La morte, l’orrore, la perdita del senno, non mi fanno paura. Vivo in un mondo governato da vermi schifosi ed arricciati, la società mi repelle, e non mi sono mai nemmanco drogato.
La distruzione non mi tocca, forse perché è inscritta in ogni particella. La rovina non mi impressiona. Ho paura solo della dipendenza, quella sogno. Dal male, ma anche dal bene, allo stesso modo. Se credessi avrei paura di Dio così come del Diavolo.
POSSO CONFESSARTI UNA COSA? IO CREDO IN DIO…
Il tuo dramma è vecchio… (e con questo non voglio sciorinare né orinare diluvi di giudizi e pregiudizi). TU sei vecchia. Degli anni ’70, per la precisione…
MI STAI FACENDO MALE…
Tu invece mi fai bene: resta! Io devo liberarmi di te. Dunque resta sempre con me! Ti riesumo dal ricordo, ti elevo a compagna di viaggio, così sarai sempre presente, e dunque il tuo valore sarà eterno ma inestimabile, e dunque non relazionabile con anima viva, come la Pala di San Marco a Venezia. Fuori da ogni cosa. Vieni: ti richiamo dalla morte apparente a quella vera. Stai con me!
COME POTREI RIFIUTARE? SONO QUI DAVANTI DA SEMPRE. COMINCIO A DIPENDERE DA TE.
Dunque io e te siamo Dio e il Diavolo. Non l’uno e l’altro, ma insieme, nello stesso tempo, dentro di noi. È il nostro modo di non aver paura. Stringimi forte, solo i fantasmi dell’infanzia ci possono capire, e forse aiutare.
2.9.07
Mezzo sonetto e versi sciolti per il tilacino

prendo coscienza del tuo divenire,
oltre che sfondo di quadro sfumato,
simbolo atro del chiaro finire.
Tilacino sedato in un’illustre immagine mortale,
non il corvo nevermore,
non l’upupa di Montale,
non il sofisma di Sophomore
o il furetto poco furbetto tuo pari nel paradiso reietto
e nell’andiriandi del feretro eretto.
Assurto a morte assurda e spiccata
come l’odore ignoto del vello macondo
quasi scorsoio e pietrificato,
io ti classifico come una foglia d’autunno
tra le cose tra me e te cadute.
Quando, ammazzato un rivale,
andasti a veder dalla rupe
il rosso scolore sui contorni dei fili
io avrei fermato il mondo proprio lì su di te.
Invece vivo.
4.7.07
Il diavolo probabilmente

Un film sul disfacimento dei valori (e) dell’uomo.
I personaggi sono tutti magri all’inverosimile (comprese le comparse), i loro volti sono statici e incerti, i loro umori e pensieri imperscrutabili. C’è una credibilità insana in questi personaggi strambi e selvatici, una gravissima leggerezza che tiene l’attenzione sospesa a oscillazioni.
Il film ha pochi dialoghi, ma alcuni sono di un’inattesa fluidità, e lasciano affabulato lo spettatore.
Gli squarci lirici sono solo due (!), il primo in una chiesa, con il protagonista e un suo amico tossico che, nel sacco a pelo, ascoltano da un giradischi l’”Ego dormio, et cor meum vigilat” di Monteverdi. Charles ha gli occhi spalancati, mentre il suo amico dorme.
Il secondo momento viene a pochi attimi dalla fine, quando cioè Charles si avvia alla sua fine, e passando davanti a una finestra semiaperta, è per un attimo catturato da una triste musica al pianoforte che viene dall’apparecchio televisivo all’interno. Si ferma per un attimo, guarda dentro. Poi riprende il suo cammino di condannato.
Riporto dei dialoghi.
Come si usa dire: ATTENZIONE!!! SPOILERS!!! Ho trascritto il finale del film (ma del resto lo si deduce dalla prima scena, che anticipa la fine. Il film è un unico lungo flashback, dunque non mi sento in colpa).
-----------
Sull’autobus pieno e silenzioso.
Charles (dopo aver assistito a una lezione di ecologia, dove il relatore difendeva le centrali nucleari): “Stupendo! Per tranquillizzare la gente basta negare l’evidenza”.
Michel: “Quale evidenza? Siamo in pieno soprannaturale. Niente è visibile”.
Charles: “Tu sei incredibile”.
Sale altra gente, in silenzio. Biglietti obliterati, mani che scorrono sui sostegni.
Charles: “I governi hanno la vista corta”.
Un tizio seduto un paio di file più avanti: “Non prendetevela con i governi. In tutto il mondo in questo momento nessuno e nessun governo può vantarsi di governare. Sono le masse a determinare gli eventi, delle forze oscure di cui è impossibile conoscere le leggi”
Una passeggera: “La verità è che qualche cosa ci spinge contro quello che siamo”
Il passeggero di fianco: “Bisogna starci, starci sempre. Sennò passi per quello che protesta sempre”
Un passeggero più avanti: “Ma chi è allora che si diverte a farsi beffe dell’umanità?”
Il passeggero di fianco: “Già, chi ci manovra sotto sotto?”
Il tizio di prima: “Il diavolo, probabilmente”.
Charles batte il gomito di Michel. L’autista si gira verso il tizio, lo guarda e frena di botto. Si sente un clangore. Scende e non torna più. Le macchine dietro suonano il clacson.
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Al colloquio dallo psicanalista (estratti). Charles (C) e lo Psicanalista (P).
P = l’inazione non le procura un certo piacere?
C = è il piacere della disperazione, evidentemente
P = si sente colpevole?
C = colpevole?
P = verso se stesso
C = colpevole senza esserlo. So di essere più intelligente degli altri, più lucido, e sono cosciente della mia superiorità. Ma se facessi qualcosa mi renderei utile, seppure in minima parte, a un mondo che mi fa schifo. Tradirei le mie idee, e questo mi farebbe solo sprofondare di più. Preferisco che non ci sia via d’uscita.
P = niente più politica nella sua vita?
C = il rifiuto di tutte le politiche
…
C = detesto la vita, ma detesto anche la morte. È una cosa orribile. Dottore, credo che non potrei mai fare quel gesto (il suicidio). L’idea che in quell’attimo cesserei di pensare, di vedere, di sentire
P = ed è proprio per questo motivo che gli antichi romani chiedevano aiuto a uno schiavo, oppure a un amico
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Nel cimitero di Pére Lachaise, di notte.
Charles cammina davanti, Valentin lo segue, con la pistola che gli ha dato Charles.
C = credevo che in un momento così grave avrei avuto dei pensieri sublimi… Vuoi sapere cosa penso?
Valentin gli spara alla testa, poi spara ancora al corpo steso a terra. Prende dalla tasca del cadavere i soldi che Charles gli aveva promesso. Poi scappa via.
Il film si chiude così, senza neppure la scritta “FINE”. Del resto, è implicita.
21.6.07
The Idiot

“Heroes” di Bowie è un disco fulgido. Sidereo e senza sbavature, perfettamente collocato nel contesto che si creò appositamente (Berlino, 1977, capitale della neocultura wave), con una mostruosa self-awareness priva della minima ironia. Da qui la statura del mito, l’immortale immagine-patina legata alla plasticità di quella copertina in bianco e nero, al tessuto impenetrabile e raffinato degli arrangiamenti, alla voce “mimetizzata” e atona, alle cadenze marziali delle progressioni ritmiche, all’alternarsi vorticoso dei registri e dello spessore tra il lato A (Commercial side) e il lato B (Art side).
Nello stesso anno uscì The idiot, che sin dalla copertina lasciava spazio a pochi dubbi sulla sua natura sporca e understated. L’album, scritto da Bowie e Iggy Pop, si cala nel medesimo contesto ed è concepito come una sorta di rovescio della medaglia di “Heroes”. Ma il risultato è tremendamente superiore. Come fosse il miglior tentativo di una imitation of life da parte di uno che si sta disintossicando da uno stato mentale più che da una sostanza, o il disperato canto di un cigno malato che vuole arrivare alla bellezza suprema, prima di rendersi conto che gli resta solo qualche minuto da vivere, il disco vive di momenti supremi e liricamente lancinanti e di affondi depressi e sgradevoli.
Il patetico si sposa bene con il disco, che è rarefatto, funkeggiante, secco come pochi, dilatatissimo. Le tracce scorrono una dopo l’altra, e lasciano una scia ipnotizzante, tanto che a volte si ha l’impressione di trovarsi ancora al pezzo precedente.
È straniante immaginare Pop che si apre a contenuti post-glam (Dum dum boys, Sister midnight, Funtime – quest’ultima presente nella colonna sonora di Miriam si sveglia a mezzanotte, delizioso horrorazzo kitsch diretto dal fratellino più semplice di Ridley Scott), lui che con i suoi Stooges rappresentava l’ipostasi più laida che l’idea di rock potesse mai generare. E infatti compare talvolta una traccia di sarcasmo nella voce assorta, che sporca la trama sonora e la riempie di buchi densi e caldi. Tutta questa sensualità genera all’ascolto un piacere irresistibile. Per un disco intenzionalmente bianco e nero questo è il traguardo più sorprendente, specie se raffrontato a “Heroes”.
La perfezione è sfiorata inconsapevolmente in diverse tracce (Nightclubbing, una delle canzoni più imitate, e soprattutto China Girl e Mass Production) che, lungi dall’essere prolisse, lasciano un grumo di sensi appesi lì, a ristagnare, e appiccicarsi alle orecchie, come se suonassero da sempre e per sempre su quel piatto.
Iggy Pop e David Bowie, 1977
30.5.07
My dark ages

16.4.07
Vucciria

I colori violenti sono anneriti ai bordi dal tratto spesso e litografico.
9.3.07
Voci lontane... sempre presenti

La tesi è che un ricordo può essere presente, pur essendo distante nel tempo (ma che vuol dire in fondo? Nel tempo non c’è un lontano e un vicino; queste sono variabili diacroniche…).
In altro (?) ambito, molti pittori sono e sono stati colpiti dalla tenacia visiva delle immagini e degli oggetti, constatando che certe visioni sono talmente icastiche da provocare vertigini sensoriali impossibili da contenere, le quali diventano automaticamente visioni obbligate, dal momento che si è proni ad ammettere le naturali dipendenze.
Dunque un numero di immagini ha la speciale propensione a stamparsi nell’ipotetico tableau mentale e a diventare d’un tratto coordinata, vita.
Il regista punta sulle sinestesie per coinvolgere uno spettatore disponibile a lasciarsi vincere dai sensi, e per chi sta al gioco il tempo passa (appunto) di traverso, e non all’avanti o all’indietro.
Il “poema di suoni” si snoda infatti nella completa assenza di un correlativo oggettivo, come se nessuna personificazione possa apparire lecita se non quella totale.
Non solo transfert nei personaggi, dunque, ma nei suoni stessi, negli ambienti, nei colori, nelle espressioni. Il processo risulta dunque lancinante, e lo spettatore si fa prendere dal senso di colpa quando non riconosce un suono, o non si cala in una suggestione.
Eppure la dimensione panica, quella più intima, consente lo scorrere delle epifanie sul proprio immaginario e traccia un credibilissimo percorso personale che è nel contempo guida e approdo all’inconscia bellezza iscritta nel passato proprio e in quello altrui.
Terence Davies, 1988
31.1.07
For absent friends

10.1.07
cLOUDDEAD

Ecco il momento. Le pupille si aprono, vogliono trovare un muro di colore, una nuvola. Ma non so parlare del primo disco dei cLOUDDEAD.
Era il 2001, e lo scenario hip-hop un punto fermo, spazzato per sempre.
L'opera è composta da quasi 74 minuti di musica discontinua, rapsodica, ciclica ed estenuante. Sei suite divise ciascuna in due movimenti, ma solo per modo di dire: i cambi di registro sono tanti e tali da relegare questa definizione al novero dei sopravanzi.
Dentro: i Pere Ubu? I Residents? I Throbbing Gristle? Così hanno scritto, e io non me ne interesso.
Ecco che ho scritto qualcosa dell'album, e subito torna l'ottundimento, e soprattutto la dipendenza. Degli oggetti dalle sensazioni e viceversa. Come scrollarsi di dosso 30 anni di cascami e lasciarsi toccare di sfuggita? Perché non si vuole essere centrati stavolta, si vuole essere sfiorati. Perché è quello il contatto più struggente.
cLOUDDEAD, 2001
4.12.06
1984

"Un'azione che rimane senza effetto non rimane senza significato.
Se si ama qualcuno, lo si ama, e quando non c'è rimasto più niente da dargli gli si continua a dare l'amore.
Quando l'ultimo pezzo di cioccolata era andato, la madre aveva stretto la bambina tra le braccia.
Non serviva a niente, non cambiava niente, non è che facesse comparire più cioccolato, non riusciva a rimandare o ad allontanare la morte della bambina, o anche la morte di lei stessa: ma le sembrava, comunque, naturale fare quel gesto.
La donna sfollata, nella scialuppa, aveva anch'essa coperto il suo bambino con le braccia, che non sarebbero servite, contro le pallottole, più d'un pezzo di carta"
Per la "dignity of labour", contro tutto e tutti.. dopo tutto.
Io non ho risposte (non chiederci la parola che squadri da ogni lato). So solo ciò che NON sono, ciò che NON voglio.
Sono allergico alla mondanità. E' quello che cerco di dire. Tutte le tragedie, anche quelle più umane e globali, mi sembrano tragedie personali.
E vorrei meno rumore. Ho scelto il periodo dell'anno più sbagliato, forse, per questa voglia di purezza.
George Orwell, 1948
24.11.06
Parabola

Primo disco di Vecchioni.
Il peggio arrangiato, dicono. E invece il basso “appiccicoso”, il piano stonato e filtrato, le tastiere approssimative, il coro registrato male, sono punti di forza di un lavoro amaro e patetico.
Guardare i testi per credere.
Lui se n’è andato:
poteva almeno andarsene in un giorno di sole
poteva far rumore come sempre
poteva non lasciare solo a me le sue paure
poteva dirmi col dolore ho chiuso questa sera
Povero ragazzo:
…tu che in questo istante starai pensando a lei
starai dicendo:"Come dorme bene!"
povero ragazzo! e a lei neppure passi per la mente
mentre grida t'amo
qui, fra le mie mani,
le stelle che le bruciano negli occhi
le braccia strette forte sul mio cuore
per non pensarti, non pensarti più
Eppure quel patetismo è genuino, funziona, e la convinzione del cantautore consente all’ascoltatore di perdonargli il narcisismo e la tautologia.
Luci a San Siro a parte, le idee si sprecano, e c’è un senso musicale morboso, avvolgente, che trova la sua apoteosi negli ultimi due pezzi: la title-track, con un cantato puntuto e istrionico, e soprattutto la perla del disco: una canzoncina chiamata Speranza.
Un’intro gelida al suono del piano trattato e del violino, che è breve zoomata su una scena in un interno, prelude al dramma di quanto sta per aversi. La strofa comincia, è disciolta nel basso e nella tastiera rarefatta, e quando cresce lo fa in modo sinuoso e trascinato.
Il pre-ritornello si apre al patetico che si diceva, e stende un acquerello sentimentale. Poi però arriva il ritornello, tutto in accordi maggiori, ripetitivo e secco, a spezzare il fiato. Il piano giocattolo impazzisce, va sui toni altissimi e disegna pattern infantili, il basso si alza di un’ottava e cambia espressione, tutto diventa un teatrino assurdo, la voce e i cori si alterano e ripetono in cadenza. È un aprosdoketon improvviso e macabro, e non fa che smentire quello che dice. È il fascino della negazione intrinseca. Dire una cosa e negarla nel contempo.
Il disco si chiude dunque così, con un messaggio di speranza che è quella dei disperati. Il testo è bellissimo:
Anche se nella vita voltandomi un mattino
io non ti troverò accanto
a me basta soltanto la tua felicità
Lo conosco il tuo dolore
credevi che oltre il monte ci fosse un giardino
e invece hai trovato soltanto
il fango di una città
Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
e non posso aspettarmi che la ferita si chiuderà
A me basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza,
tu devi vivere!
Nessuno ti ricorda
a nessuno tu manchi
quel ragazzo non può tornare
e per questo soltanto
vorresti finirla lì
Ma guarda che la vita non è la prima porta
aperta in fretta senza bussare
è il balcone più grande
che guarda sul mare
Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
ma mi basta darti speranza
Insomma, un’opera datata, per fortuna, marrone e fosca come la copertina, primo amaro vagito di un poeta che, come accade a tutti coloro che invecchiano nell’arte, passerà attraverso dischi belli e forti (“Ipertensione” ed “Elisir” su tutti) e si annacquerà presto nell’autobiografismo e in un senso dell’eros estenuato e pedante (come è giusto che sia per un anziano); un cammino coerente forse, ma triste.
R.Vecchioni, 1971
6.11.06
Novembre
16.10.06
Meccaniche amorose

Una macchina nuova funziona bene, stupisce l’astante. Il suo automatismo fa pensare ad un’intelligenza fredda, non emotiva, e per questo controllata e superiore.
La macchina può sembrare un’entità super partes, perché mima le azioni degli esseri viventi senza vivere di per sé.
È il super-io postmoderno, dal momento che ogni certezza sembra un discorso spezzato tempo fa e lasciato colare nei tombini.
È normale dunque che gli esseri umani, sempre imprecisi e mediati dai falsi circuiti, vogliano aspirare a quel protofenomeno: l’intelligenza senza emozione.
I canti di amore per le macchine sono in genere struggenti, suscitano inquietudine e stringimento, perché l’amore per una macchina è il simbolo degli amori impossibili.
Il film nel film contenuto in “2046” di Wong Kar-Wai è un lamento sonoro e visivo molto commovente. Le emozioni, protagoniste indiscusse della pellicola, rappresentano nella trama un’evoluzione dell’intelligenza artificiale, e nello stesso tempo (com’è ovvio) un punto debole. Infatti ogni sistema nuovo, essendo avanguardia, è ancora poco evoluto, è sempre prototipo di qualcosa di più raffinato ed esatto.
In aggiunta, risente del principale difetto delle macchine: l’usura e la non-longevità (il parallelismo con la vita umana è ancora più lancinante).
Nel film le emozioni delle macchine, col tempo, diventano “differite”, cioè ritardate. Amare una macchina diventa dunque abolire la contingenza temporale, oltre che la convergenza della specie.
Una lezione ben anticipata dallo sconvolgente e sublime poema di “Blade Runner”.
L’amore di una macchina, o per una macchina, è un bug in un sistema progettato per altro. È un malfunzionamento. Chi ha a che fare con le macchine lo sa, la macchina prima o poi smette di funzionare, o comunque diventa obsoleta. Non c’è scampo.
I Kraftwerk propongono nel 1978 uno dei loro capolavori più longevi, chiamato The Man Machine, imperniato su un’estetica robotizzata e fascinosamente futurista, fin dalla copertina, ispirata al costruttivista tedesco El Lissitzky. Il quartetto propone un’iconografia più che un vero e proprio manifesto.
Il rapporto uomo/macchina è visto non come fonte di alienazione, ma come base di una relazione creativa e di reciproco accostamento. E il chant d’amour è mantrico, ciclico, eterno, è totale. Ascoltare i quasi sei minuti della versione album della title-track per credere.
Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being
Kraftwerk, 1978
4.10.06
Etica della rinuncia? Macché...

A certa etica della rinuncia dovrebbe corrispondere una pratica della denuncia.
Fuori da ogni misticismo, ma pervasi da un furore tutto antropomorfo, i Pooh – pur di mascherare l’omosessualità latente di certe loro suggestioni – sciorinano donne, pugni e poesie, mentre il vino va via non si sa come.
Sarebbe un inizio, ma il sogno di mandare a cagare per sempre le donne, alla ricerca di penose “avventure” maschili, trasgressive come una gita al Volto Santo di Manoppello (provincia di Pescara), intrise come sono di “grappa di more” e piazze di “posti dell’est” (generici, che tanto sono tutti posti incolori), svaniscono nel punto più alto del climax, quando il “biglietto per l’avventura” sembra ormai prenotato.
Con un’eiaculazione retrograda, infatti, i pusillanimi fanno marcia indietro: “facciamo che è tardi, non facciamo i bastardi” (good rhyme, compliments!).
È un’ottica rovesciata, dove l’uomo si femminilizza proprio perché vuole ossessivamente definire la propria natura virile. Davvero deprimente.
Castrazione volontaria (voglio Ferreri!!!!), e un senso di tristezza immanente. L'uomo per essere davvero libero dev'essere un uccello (non è una metonimia) che si chiude nella gabbia da solo, rimandando il coraggio dell'esplorazione all'anno prossimo.
Dunque nessuna etica della rinuncia, ma semplice collaborazionismo.
Però è importante mantenere la facciata: da qui l'inquietante (sotto)tono di essere naturalmente dominante, per non farsi dire pirla dagli amichetti: “La tua donna e la mia sono persone”. Alla faccia dell’emancipazione! (this rhyme is better!).
I Pooh parlano delle donne come del loro cane; sembrano sempre pronti a capirne le esigenze e a raccoglierne i bisognini. Ma si è mai visto un cane che porta al guinzaglio un altro cane?
Chi è il cane di chi? La risonanza tra i due può diventare nebbia purpurea... ascoltare i Pooh può essere un'esperienza davvero alternativa, al pari di una droga leggera.
Il gruppo esce nel 1981 con uno dei suoi dischi più farlocchi: "Buona Fortuna" (dev'essere quello che hanno augurato i produttori al blasonato quartetto, dopo aver ascoltato i demo). La title track, scritta da D’Orazio, è indicativa del livello. La fortuna “è della Vergine, e si sa le menate che ha”. Gli 883 devono aver attinto a piene mani da questi solchi.
Ecco il favoloso testo di "Fotografie", tratta dal citato album:
Fotografie: trasparenze di fuori città, torri spagnole
le chitarre e le birre in collina, l'eclissi di sole.
Fotografie io e te vagabondi nel porto di Barcellona
su di giri di prima mattina, navigando l'estate del sud
nelle fotografie, malinconie, colpi di sole
donne, pugni e poesie mentre qui tutto il vino va via non si sa come
la tua donna e la mia ridono insieme
han già deciso che han chiuso i confini e i nostri treni non partono più.
Fotografie: una piazza di un posto dell'est con le bandiere
una tazza di grappa di more, senza amori né fretta né idee.
Basta fotografie, piccole spie pericolose
un bicchiere di più
torni tu
batti i pugni e vedrai chi siamo ancora
c'è un biglietto per noi per l'avventura
sulla corriera colori che vola chi la perde non parte mai più.
Quante pagine ha la libertà non lo sappiamo
quante volte dirai: mi fermo qui
quanto vento ci sta dentro una vela
non parliamo di noi alla moviola
finito il vino facciamo che è tardi
non facciamo i bastardi perché:
la tua luna e la mia fanno canzone
la tua donna e la mia sono persone
guidando piano portiamole a casa
e poi chiediamo anche scusa vedrai
tutto è meglio così, meglio così
basta malinconie, fotografie.
2.10.06
Andavo nel silenzio prima
11.9.06
Profondo Rosso

Cosa c'è alla base della fama del più famoso film di Argento?
I detrattori puntano il dito contro le lungaggini di alcune sequenze (l'ispezione alla villa del bambino urlante), l'assurdità di certi delitti, l'eccessivo fervore, il finale baracconesco (comune a molte pellicole del regista), l'improbabilità dell'assassino.
I sostenitori, dall’altro lato, evocano espressioni quali "poesia della violenza", "controllo formale", "espressionismo", tendendo in questo a confrontare la pellicola con altre del genere. Il film infatti, per essere un "thrilling" (come fu pubblicizzato all'uscita nelle sale, nel 1975), è indubbiamente superiore alla media per sceneggiatura e soprattutto confezione. Il montaggio resta ancor oggi esemplare, il lavoro sul suono mirabile, e anche i tempi sono ottimizzati per l'effett(acci)o finale.
A rivederlo tante volte, comunque, qualcosa indubbiamente sembra non funzionare. Tutto quello che non è semplicemente visivo rischia spesso di appare puerile ed artificiale. E anche le invenzioni pittoriche sono annegate dal sadismo, che sposta l'attenzione e tende a fiaccare i sensi.
Un ottimo film di genere, senz'altro, ma a volte poco distante dal bric-à-brac degli "idioti dell'orrore" (Battiato). È proprio lo spavento generato a indebolire una pellicola che potrebbe avere ambizioni più ampie (non contenutistiche, ma formali) e a farlo restare soltanto un film pauroso. Sarebbe stato possibile allargare l'estetica dell'omicidio e della brutalità ai canoni più ampi della bellezza vista come dramma, scissione (cfr il solito Bacon, o Genet), ma le scelte sono precise, e orientate più all’omaggio al genere che all’arte.
Quindi la paura è il mezzo e il fine. Questo è il limite.
È comunque interessante pensare all'influenza dell'architettura e del design, della moda e del costume sull'attribuzione dell'aggettivo "spaventoso" a quello che si vede.
Il film fa paura perché è vecchio e sporco, perché le luci sono taglienti, le musiche tese, i colori vivissimi (quel sangue di un rosso irreale è ancor più pauroso di quello vero, perché diventa parossismo del concetto di sangue. Come dire: tutto è malato, persino il sangue delle vittime), i dettagli morbosi (i rubinetti, gli specchi incrostati, la puntina del giradischi, le carrellate sui tavoli pieni di oggetti bizzarri e rossi).
Quell'arredamento (vedasi la casa della prima vittima) è funzionale alla storia, persino gli esterni sono tetri, spaventosi, e in ultima analisi tutti gli ambienti, naturali e non, funzionano decisamente.
Nel successivo Suspiria (1977) il décor barocco e coloratissimo - fin nelle luci, a tratti kitsch - e le scenografie pompose e visuali serviranno più da contrappasso che da sostegno. Qui invece le luci violente, i colori scuri, le prospettive sghembe generano una tensione subliminale profonda e duratura, e concorrono a generare il meccanismo della paura.
A qualcuno capita ancora di girare per le città e di inquietarsi a vedere gli androni dei palazzi, "stile profondo rosso", e di provare disagio a trovarsi in quelle strutture. Tale è la forza visiva del film.
La violenza è esplosiva, e poco credibile in certi tratti (avendo a disposizione un'arma affilata, che bisogno c'è di ficcare la testa della vittima nell'acqua bollente?), ma è indubbiamente vincente. La pellicola fa paura perché si sente che quella che rappresenta è la violenza che lo spettatore desidera. Fa paura la propria parte oscura che spinge a non girare gli occhi, ma anzi a guardare attentamente la mano dell'assassino che spacca i denti della vittima contro gli spigoli del camino. Il film tiene cioè conto dell'orrore inconscio, che completa la gamma di quello mostrato, centrando in pieno l'obiettivo di mettere a disagio.
A volte Argento si trova pericolosamente sul margine: ma sa bene che troppa violenza diventa grottesca e genera distacco, e dunque si tiene costante sul bordo. E mostra il massimo tollerabile, e nello stesso tempo credibile. Il regista introduce così una misura nella violenza (tra le pur abbondanti efferatezze).
Cliccare sul link, dove si vede il bellissimo trailer originale:
http://www.youtube.com/watch?v=Bjc1-Co-Fxk
Dario Argento, 1975