22.7.09

Estate


il granchio muove i lati infiniti
della sfera del mare
e posandosi su una roccia
perché io lo veda
mi coinvolge in un dramma
a tinte blande
come di chi vuole innamorare un passante
prima di imbarcarsi per sempre

il profilo di lui che scompare
è di imperscrutabile speranza.

1.7.09

Macello


Un segreto riempie le tempie pelose
di una giovane manza
e gli occhi infantili lo custodiscono
con qualche lacrima,
una piega rugosa nel suo sorriso
prima di morire
ed è l'unica a non riempire di suoni
lo spazio della morte.
Mi vede (segno il sesso sulla tabella)
e confermo complice il messaggio.
Caricata l'arma
il boia dalle orbite verdastre
gli sorride (giaccio tra pezzetti di grasso)
spara.
I segreti si ricompongono
nella estraneità della morte.
~~~~~~~~~~~~~~
Una vitella stupita d'esser viva
guarda noi che la ignoriamo,
decine di sorelle appese si pavoneggiano,
si sente sola e brutta a respirare
ma non ci sono più paranchi
e le celle frigorifere sono colme,
rotea intorno lo sguardo suo più dolce
se è pausa o tregua nessuno raccoglie
si gonfia, lancia un grido e scivola sul sangue
piove plasma per un poco e finalmente
si libera un paranco.
Ivano Ferrari, 2004

5.3.09

Pensieri in cantina


La palla, attraverso una finestra rotta, cadde nel corridoio di uno scantinato.
Una ragazzina, la figlia quattordicenne della portinaia, la raggiunse zoppicando. Il tram le aveva portato via una gamba, poverina, e lei era contenta quando poteva andare a raccogliere la palla per gli altri.
Nello scantinato regnava una semioscurità, lei tuttavia si accorse che in un angolo qualcosa si muoveva.
“Micetto!” disse la figlia dei portinai che aveva una gamba di legno. “Come sei capitato qui, micettino?”.
Raccolse la palla e, come poté, si allontanò veloce.
Il vecchio sorcio, brutto e puzzolente – lui che era stato scambiato per un micino – rimase interdetto.
Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo.
Prima di allora l’avevano sempre disprezzato, gli gettavano addosso del carbone oppure scappavano via spaventati.
In quel momento e per la prima volta gli venne di pensare a come sarebbe stato tutto diverso se il destino l’avesse fatto nascere gatto.
Anzi dato che siamo degli inguaribili scontenti – continuò a procedere nelle sue fantasticherie. E se fosse nato figlia della portinaia con una gamba di legno?
Ma quella era ormai una cosa troppo bella. Non riusciva neanche a immaginarsela.

István Örkény, 1968

22.12.08

Aristosseno


Ei diceva che vano è il pensare le realtà musicali in termini di grandezze misurabili e fuorviante è il normalizzarsi unicamente sulla estensione degli intervalli; occorre invece rimettersi al giudizio dell'orecchio e teorizzare solo ciò che si percepisce; da qui il concetto di somiglianza e di non somiglianza che spodesta quello di eguale e diseguale.
La colorizzazione, l’iridata purezza delle forze basilari della natura (le onde), come primordio dell’astrazione percettiva che strugge.
Come può la musica scalfire l’inconscio e, attraverso l’uomo, farsi motore? Come può un suono farsi fonte di energia?
E, per estensione, come può un’emozione farsi forza (un’entità cioè in grado di impartire un’accelerazione ad una massa)?
Perché un quadro astratto può far febbricitare, perché un film può cambiare il disordine molecolare di chi sperimenta?
Andando fino in fondo… se credo che un’emozione possa generare un lavoro (inteso come forza per spostamento), perché non credo in Dio, che rappresenta l’implicito volo dall’idea alla materia?

10.11.08

Finale per un racconto fantastico



– Che strano! – disse la ragazza avanzando cautamente. – Che porta pesante! – Così dicendo la toccò, e si chiuse improvvisamente, con un tonfo..
– Mio Dio! – disse l’uomo. – Mi sembra che all’interno sia priva di serratura. Ci ha chiusi dentro tutti e due!
– Tutti e due no. Uno solo, – disse la ragazza.
Passò attraverso la porta e scomparve.

I.A. Ireland

18.9.08

Il lungo domani


È il 1988. Un’astronave parte da Cape Canaveral. A bordo c’è Doug, un astronauta americano che è stato ingaggiato per una spedizione su un sistema stellare simile a quello solare. La sua missione è scoprire se c’è vita sul pianeta di quel sistema che più somiglia alla terra. La distanza è di 141 anni luce, dunque Doug trascorrerà 40 anni nello spazio, da solo. Sarà tuttavia conservato in “animazione sospesa”, sì che tornerà sulla terra dopo 40 anni, ma sarà invecchiato solo di qualche settimana.
Un mese prima della partenza si innamora, ricambiato, di Sandy, una giovane ricercatrice della NASA. Lo sbocciare del loro amore è già legato a un senso di perdita, e si compie con incosciente pienezza, dal primo incontro fino al momento della partenza. ‘Ti aspetterò, Doug… anche se sarò una vecchia con lo scialle e tu sarai ancora giovane’.
Questa la trama di “The Long Morrow”, ep.135 della stagione 5 del telefilm “The Twilight Zone” (Ai Confini Della Realtà).
Il finale, che non rivelo, porta a una riflessione sull’amore difficile, che a volte coincide con l’amore impossibile, e sull’imprevedibilità delle azioni umane perpetrate per contrastare un destino avverso.
La sinossi di una relazione è sempre secondaria al modo di sentire la relazione stessa. Può trattarsi di un amore scomodo, illogico e ingiustificabile, ma fa bene ricordare che è sempre la percezione del nucleo originale delle cose a determinare l’agio inatteso, tra tanti ostacoli.
Dunque Giulietta affronta il pugnale, Medea la colpa (anche il suo è un amore impossibile, quello di chi sceglie di essere odiato dalla persona amata) e noi percorriamo traiettorie forse più tenui, ma comunque simili nella tenacia.
Ecco perché l’episodio commuove (e la cornice fantascientifica rende le cose ancora più vaghe e poetiche), e convince che “c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada”.
Per amore si muore sempre, in senso figurato e no.
1964

17.9.08

Le loup


Non piangere sul latte versato
verrà di notte il lupo
a leccarlo
perché il lupo è vago
delle cose perse
Michele Mari, 2007

14.5.08

First Utterance


Il primo vagito dei Comus è un disco difficile da recensire. È del 1971, presenta una strumentazione acustica, un doppio canto molto chiaroscurato (voce maschile ruvida, voce femminile melodica), atmosfere gotiche venate di psichedelia. Cavalcate medievali (The Bite), ossessioni tribali (Diana, Song to Comus, The Prisoner), oscuri intermezzi (Bitten), immagini ossianiche (Drip Drip), sono contrappuntati da uno dei pezzi più belli del prog, una sorta di suite sospesa tra le follie sparse nel disco (The Herald).
Sin dalla copertina, il gruppo si voca al caos e alla mostruosità come forma espressiva necessaria.
I molti eccessi dell’opera sono volutamente raffreddati da arrangiamenti folk, e l’aria che si respira è sinceramente mistica, tale da spingere all’ascolto ripetuto, come un mistero che richiama a sé.
Addentrandosi nel bosco, l’incauta Diana e gli ascoltatori entrano in contatto col dio Comus, trionfo del bacchico non epico, elogio panico dell’istinto contro l’imperfezione di chi riesce a fuggire (The Herald, gli araldi che si fermano prima del bosco, e che, come i sette messaggeri di Dino Buzzati, recano notizie di fantasmi). È difficile schierarsi tra la vittima e il carnefice, in questo caso.
Scheda operativa: chi è posseduto da un demone deve cercare di fuggire? Nel think tank deve esserci per forza un posto per la catarsi? Come ci si può disintossicare dall'oscuro richiamo del male?

9.5.08


Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

23.1.08

Iluminacja


Disperata società associazionista, ferente politica di acquegrasse, pubbliche istituzioni esiziali, odioso potere in mano alle mani, e dentro alle stanze il gesto zen di spegnere. Un utopico “per sempre”.
L’angariato ricominciare, il crudele rimando ai sentimenti, che sono il facile rifugio di ogni peccato.
Dolorifica mancanza di dignità, straziante mondanità.
Per chi non è normale spegniamo una luce.
Traffici trascendentali, eterne diatribe di muffe incallite e facce impagliate in movenze segnate.
Spengo la luce al mondo con troppi soli e troppe sole.
Il disumano passo delle religioni furbette, l’infinita povertà dei ricchi di spirito, e le bellurie di chi non si può permettere neppure una visione politica, ma vive lo stesso. Buona notte all’indulgenza e a chi ride perché ha capito come si vive a ridosso delle cose. Fino alla morte.
L’eterno divenire, che poi non è eterno e non è divenire. La foresta delle ambizioni con le corde e le liane del bel pensiero e della produzione e le infinite uscite di sicurezza per tornare a casa. Lo sfascio della droga e di chi perde, e non risale. La scelta dell’immoralità.
Spegniamo la luce all’obesità senza immondizia, alla cultura senza colore, alle giornate piene di aria da rinnovare. Al buio ritroviamo l’abbondanza, la sicurezza delle cose che percepiamo. Possiamo dirci uguali, se non altro a noi stessi. Ogni pezzo di corpo uguale, ogni vestito.
La dignità torna ad essere commisurata a quello che siamo, e non a quello che è visibile. Riconoscersi unità nonostante le lacerazioni e i troncamenti. Nel buio la pacificazione delle menti.
Il gravissimo peso delle colpe non lavate, il sacrificio perso per mani distratte, il sentimento mal riposto in altari spioventi e in persone sfuggenti. Il dolore puro nei movimenti e nella ruota degli occhi, apparente e profondissima. La malattia e l’ineluttabilità del pianto dei bambini. L’inesorabilità delle leggi di ogni natura.
Spengo la luce al positivismo e alla ragione, perché nessuno ha ragione, e chiudo le imposte delle cose che non salvano, perché partorite nel travaglio della mente, e dunque corrotte.
L'inevitabile caos dei contatti falsi, l’insoffribile falsità del concetto di anima, la moltitudine che si propaga. Queste luci moleste conviene spegnerle una volta per tutte, perché tutti ci si riconosca parte di un sistema misterioso e mortale, e perché alla fine qualcosa di buono ritorni, e non solo la pazzia e la sostanziale solitudine cui tutti naturalmente tendiamo.

24.12.07

Moonage Daydream


Keep your electric eye on me babe
Put your ray gun to my head
Press your space face close to mine, love
Freak out in a moonage daydream

5.11.07

A digiuno sull'erba


pensavo che tu stessi indugiando
sulle meraviglie del giardino
e invece parlavi con qualcuno
di qualcosa di molto moderno

18.10.07

Omaggio sgraziato a Dino Buzzati


SORPRESA!!!
Non ci credo a te! Polla baffona! Da dove sei uscita?
DALLA NUBE DELL’INFANZIA! TU ORA DEVI AVERE PAURA…
Io non ho più paura di te, da un pezzo.
UAHAHAHAHAHAHAAAA!!!
Cambia strategia, faccia di culo! Mi fanno paura altre cose adesso.
QUANDO ERI PICCOLO TEMEVI CHE LE PERSONE INTORNO A TE POTESSERO TRASFORMARSI IN ORRIDI ESSERI ASSETATI DI SANGUE… CHE IO FOSSI TUA MADRE IMPOSSESSATA!
Senti, bella, le persone che conosco si sono quasi tutte trasformate in comunisti a pecora, beppe grilli, militari, spider pork, bastardi ovunque, liberali illuminati, tilacini estinti, collaborazionisti, lecchini, burini, babbuini e sderenati. Non è questo che mi fa paura… Nice try…
ALLORA CHE NE DICI DEL MIO COLORITO VERDE? NON È NORMALE, AMMETTILO…
Mi fa paura la dipendenza, la fitta rete di fili che legano le COSE alle cose e alle persone e le PERSONE alle cose e alle persone. Entrare in questa rete è quasi irreversibile, per chi è in cerca di qualcosa. Tu, ad esempio, cosa cerchi? E da cosa dipendi? O da chi?
IO SONO SOLA, E SO ESSERE CALDA.
Puoi essere tutto e il contrario di tutto.
CIOÈ NIENTE?
No, il contrario di tutto non è “niente”. Lascia perdere…
IO VOGLIO ESSERE IL TUO INCUBO! TI DIVORERÒ!!
La morte, l’orrore, la perdita del senno, non mi fanno paura. Vivo in un mondo governato da vermi schifosi ed arricciati, la società mi repelle, e non mi sono mai nemmanco drogato.
La distruzione non mi tocca, forse perché è inscritta in ogni particella. La rovina non mi impressiona. Ho paura solo della dipendenza, quella sogno. Dal male, ma anche dal bene, allo stesso modo. Se credessi avrei paura di Dio così come del Diavolo.
POSSO CONFESSARTI UNA COSA? IO CREDO IN DIO…
Il tuo dramma è vecchio… (e con questo non voglio sciorinare né orinare diluvi di giudizi e pregiudizi). TU sei vecchia. Degli anni ’70, per la precisione…
MI STAI FACENDO MALE…
Tu invece mi fai bene: resta! Io devo liberarmi di te. Dunque resta sempre con me! Ti riesumo dal ricordo, ti elevo a compagna di viaggio, così sarai sempre presente, e dunque il tuo valore sarà eterno ma inestimabile, e dunque non relazionabile con anima viva, come la Pala di San Marco a Venezia. Fuori da ogni cosa. Vieni: ti richiamo dalla morte apparente a quella vera. Stai con me!
COME POTREI RIFIUTARE? SONO QUI DAVANTI DA SEMPRE. COMINCIO A DIPENDERE DA TE.
Dunque io e te siamo Dio e il Diavolo. Non l’uno e l’altro, ma insieme, nello stesso tempo, dentro di noi. È il nostro modo di non aver paura. Stringimi forte, solo i fantasmi dell’infanzia ci possono capire, e forse aiutare.

2.9.07

Mezzo sonetto e versi sciolti per il tilacino


O tilacin similpelle zebrato
prendo coscienza del tuo divenire,
oltre che sfondo di quadro sfumato,
simbolo atro del chiaro finire.

Tilacino sedato in un’illustre immagine mortale,
non il corvo nevermore,
non l’upupa di Montale,
non il sofisma di Sophomore
o il furetto poco furbetto tuo pari nel paradiso reietto
e nell’andiriandi del feretro eretto.
Assurto a morte assurda e spiccata
come l’odore ignoto del vello macondo
quasi scorsoio e pietrificato,
io ti classifico come una foglia d’autunno
tra le cose tra me e te cadute.
Quando, ammazzato un rivale,
andasti a veder dalla rupe
il rosso scolore sui contorni dei fili
io avrei fermato il mondo proprio lì su di te.
Invece vivo.

4.7.07

Il diavolo probabilmente



Era il 1977. Robert Bresson usciva nelle sale con un film asciutto e lucido, agghiacciante e sublime.
Un film sul disfacimento dei valori (e) dell’uomo.
I personaggi sono tutti magri all’inverosimile (comprese le comparse), i loro volti sono statici e incerti, i loro umori e pensieri imperscrutabili. C’è una credibilità insana in questi personaggi strambi e selvatici, una gravissima leggerezza che tiene l’attenzione sospesa a oscillazioni.
Il film ha pochi dialoghi, ma alcuni sono di un’inattesa fluidità, e lasciano affabulato lo spettatore.
Gli squarci lirici sono solo due (!), il primo in una chiesa, con il protagonista e un suo amico tossico che, nel sacco a pelo, ascoltano da un giradischi l’”Ego dormio, et cor meum vigilat” di Monteverdi. Charles ha gli occhi spalancati, mentre il suo amico dorme.
Il secondo momento viene a pochi attimi dalla fine, quando cioè Charles si avvia alla sua fine, e passando davanti a una finestra semiaperta, è per un attimo catturato da una triste musica al pianoforte che viene dall’apparecchio televisivo all’interno. Si ferma per un attimo, guarda dentro. Poi riprende il suo cammino di condannato.

Riporto dei dialoghi.
Come si usa dire: ATTENZIONE!!! SPOILERS!!! Ho trascritto il finale del film (ma del resto lo si deduce dalla prima scena, che anticipa la fine. Il film è un unico lungo flashback, dunque non mi sento in colpa).
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Sull’autobus pieno e silenzioso.
Charles (dopo aver assistito a una lezione di ecologia, dove il relatore difendeva le centrali nucleari): “Stupendo! Per tranquillizzare la gente basta negare l’evidenza”.
Michel: “Quale evidenza? Siamo in pieno soprannaturale. Niente è visibile”.
Charles: “Tu sei incredibile”.
Sale altra gente, in silenzio. Biglietti obliterati, mani che scorrono sui sostegni.
Charles: “I governi hanno la vista corta”.
Un tizio seduto un paio di file più avanti: “Non prendetevela con i governi. In tutto il mondo in questo momento nessuno e nessun governo può vantarsi di governare. Sono le masse a determinare gli eventi, delle forze oscure di cui è impossibile conoscere le leggi”
Una passeggera: “La verità è che qualche cosa ci spinge contro quello che siamo”
Il passeggero di fianco: “Bisogna starci, starci sempre. Sennò passi per quello che protesta sempre”
Un passeggero più avanti: “Ma chi è allora che si diverte a farsi beffe dell’umanità?”
Il passeggero di fianco: “Già, chi ci manovra sotto sotto?”
Il tizio di prima: “Il diavolo, probabilmente”.
Charles batte il gomito di Michel. L’autista si gira verso il tizio, lo guarda e frena di botto. Si sente un clangore. Scende e non torna più. Le macchine dietro suonano il clacson.
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Al colloquio dallo psicanalista (estratti). Charles (C) e lo Psicanalista (P).
P = l’inazione non le procura un certo piacere?
C = è il piacere della disperazione, evidentemente
P = si sente colpevole?
C = colpevole?
P = verso se stesso
C = colpevole senza esserlo. So di essere più intelligente degli altri, più lucido, e sono cosciente della mia superiorità. Ma se facessi qualcosa mi renderei utile, seppure in minima parte, a un mondo che mi fa schifo. Tradirei le mie idee, e questo mi farebbe solo sprofondare di più. Preferisco che non ci sia via d’uscita.
P = niente più politica nella sua vita?
C = il rifiuto di tutte le politiche

C = detesto la vita, ma detesto anche la morte. È una cosa orribile. Dottore, credo che non potrei mai fare quel gesto (il suicidio). L’idea che in quell’attimo cesserei di pensare, di vedere, di sentire
P = ed è proprio per questo motivo che gli antichi romani chiedevano aiuto a uno schiavo, oppure a un amico
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Nel cimitero di Pére Lachaise, di notte.
Charles cammina davanti, Valentin lo segue, con la pistola che gli ha dato Charles.
C = credevo che in un momento così grave avrei avuto dei pensieri sublimi… Vuoi sapere cosa penso?
Valentin gli spara alla testa, poi spara ancora al corpo steso a terra. Prende dalla tasca del cadavere i soldi che Charles gli aveva promesso. Poi scappa via.
Il film si chiude così, senza neppure la scritta “FINE”. Del resto, è implicita.

Robert Bresson, 1977

21.6.07

The Idiot


“Heroes” di Bowie è un disco fulgido. Sidereo e senza sbavature, perfettamente collocato nel contesto che si creò appositamente (Berlino, 1977, capitale della neocultura wave), con una mostruosa self-awareness priva della minima ironia. Da qui la statura del mito, l’immortale immagine-patina legata alla plasticità di quella copertina in bianco e nero, al tessuto impenetrabile e raffinato degli arrangiamenti, alla voce “mimetizzata” e atona, alle cadenze marziali delle progressioni ritmiche, all’alternarsi vorticoso dei registri e dello spessore tra il lato A (Commercial side) e il lato B (Art side).
Nello stesso anno uscì The idiot, che sin dalla copertina lasciava spazio a pochi dubbi sulla sua natura sporca e understated. L’album, scritto da Bowie e Iggy Pop, si cala nel medesimo contesto ed è concepito come una sorta di rovescio della medaglia di “Heroes”. Ma il risultato è tremendamente superiore. Come fosse il miglior tentativo di una imitation of life da parte di uno che si sta disintossicando da uno stato mentale più che da una sostanza, o il disperato canto di un cigno malato che vuole arrivare alla bellezza suprema, prima di rendersi conto che gli resta solo qualche minuto da vivere, il disco vive di momenti supremi e liricamente lancinanti e di affondi depressi e sgradevoli.
Il patetico si sposa bene con il disco, che è rarefatto, funkeggiante, secco come pochi, dilatatissimo. Le tracce scorrono una dopo l’altra, e lasciano una scia ipnotizzante, tanto che a volte si ha l’impressione di trovarsi ancora al pezzo precedente.
È straniante immaginare Pop che si apre a contenuti post-glam (Dum dum boys, Sister midnight, Funtime – quest’ultima presente nella colonna sonora di Miriam si sveglia a mezzanotte, delizioso horrorazzo kitsch diretto dal fratellino più semplice di Ridley Scott), lui che con i suoi Stooges rappresentava l’ipostasi più laida che l’idea di rock potesse mai generare. E infatti compare talvolta una traccia di sarcasmo nella voce assorta, che sporca la trama sonora e la riempie di buchi densi e caldi. Tutta questa sensualità genera all’ascolto un piacere irresistibile. Per un disco intenzionalmente bianco e nero questo è il traguardo più sorprendente, specie se raffrontato a “Heroes”.
La perfezione è sfiorata inconsapevolmente in diverse tracce (Nightclubbing, una delle canzoni più imitate, e soprattutto China Girl e Mass Production) che, lungi dall’essere prolisse, lasciano un grumo di sensi appesi lì, a ristagnare, e appiccicarsi alle orecchie, come se suonassero da sempre e per sempre su quel piatto.

Iggy Pop e David Bowie, 1977

30.5.07

My dark ages


Non devo aspettarmi niente da questa maturità. Sono cresciuto scarno e avaro. Sembra tutto un preparativo ai saluti; tanto lunghi e inutili, non cambiano niente.
Il silenzio in realtà non è più dignitoso, è solo l'ennesima illusione.
Ma è troppo tardi per riscattare la parola.
A meno che nel saluto io rintracci una fine degna di tanta vanità.

16.4.07

Vucciria


Vucciria, carni appese, natura morta, passaggi sghembi, angustie ripiene. La merce in mostra, al sole e alla luce artificiale si prostra, si marce.
È una merceria sans merci, e la dama passa con la sua nube di cose immaginate.
Si attribuisce al caos un ordine marziale, e la profferta venerea dei beni materiali incombe sul visus come un banco di attrazione.
I colori violenti sono anneriti ai bordi dal tratto spesso e litografico.
La lezione dello scurore picassiano trova nelle forme slanciate ed acuminate l’esito più frontale, e la pienezza del campo visivo lascia nella mente un denso senso di sovrabbondanza, da stornare dove si vuole, nell’angoscia del possesso monadale o nell’irrequieta moltitudine dei flussi distratti.
a
Renato Guttuso, 1974

9.3.07

Voci lontane... sempre presenti


Spesso capita la tentazione, da Leopardi in poi, di voler definire il remoto, il vago e l’infinito. Terence Davies sente questo richiamo sottile, e si concentra sulla transustanziazione della persistenza della memoria.
La tesi è che un ricordo può essere presente, pur essendo distante nel tempo (ma che vuol dire in fondo? Nel tempo non c’è un lontano e un vicino; queste sono variabili diacroniche…).
In altro (?) ambito, molti pittori sono e sono stati colpiti dalla tenacia visiva delle immagini e degli oggetti, constatando che certe visioni sono talmente icastiche da provocare vertigini sensoriali impossibili da contenere, le quali diventano automaticamente visioni obbligate, dal momento che si è proni ad ammettere le naturali dipendenze.
Dunque un numero di immagini ha la speciale propensione a stamparsi nell’ipotetico tableau mentale e a diventare d’un tratto coordinata, vita.
Il regista punta sulle sinestesie per coinvolgere uno spettatore disponibile a lasciarsi vincere dai sensi, e per chi sta al gioco il tempo passa (appunto) di traverso, e non all’avanti o all’indietro.
Il “poema di suoni” si snoda infatti nella completa assenza di un correlativo oggettivo, come se nessuna personificazione possa apparire lecita se non quella totale.
Non solo transfert nei personaggi, dunque, ma nei suoni stessi, negli ambienti, nei colori, nelle espressioni. Il processo risulta dunque lancinante, e lo spettatore si fa prendere dal senso di colpa quando non riconosce un suono, o non si cala in una suggestione.
Eppure la dimensione panica, quella più intima, consente lo scorrere delle epifanie sul proprio immaginario e traccia un credibilissimo percorso personale che è nel contempo guida e approdo all’inconscia bellezza iscritta nel passato proprio e in quello altrui.


Terence Davies, 1988

31.1.07

For absent friends


Dove siete amici persi, che non sapete più nulla di me e di quello che sono ora..
Com'era vero quando da piccolo pensavo ai cerchi e mi veniva la febbre: era una visione della ruota eterna e pesante, lenta nel suo cigolio
...meccanismo fatto di croci
coi suoi fantocci attaccati
che pendono dai suoi raggi
girano coi suoi ingranaggi...
E chissà cosa fate voi, e cosa siete diventati, e se ancora qualcosa di quello che conosco c'è ancora.
Vorrei dare a una bottiglia un testamento, e vederla allontanarsi sul mare, toccare l'imprevedibile e arrivare a voi, vivi o morti, sperando che mi tornerà indietro da vecchio, e allora forse sì potrei sorridervi.

10.1.07

cLOUDDEAD


Ecco il momento. Le pupille si aprono, vogliono trovare un muro di colore, una nuvola. Ma non so parlare del primo disco dei cLOUDDEAD.
Era il 2001, e lo scenario hip-hop un punto fermo, spazzato per sempre.
L'opera è composta da quasi 74 minuti di musica discontinua, rapsodica, ciclica ed estenuante. Sei suite divise ciascuna in due movimenti, ma solo per modo di dire: i cambi di registro sono tanti e tali da relegare questa definizione al novero dei sopravanzi.
Dentro: i Pere Ubu? I Residents? I Throbbing Gristle? Così hanno scritto, e io non me ne interesso.
Così come non so definire Third dei Soft Machine, che è stato sempre scritto in me, ora non trovo alcuna espressione per capire qual'è il filo reale e mensurabile che mi leghi a questa psichedelia ondivaga e disturbata. Quella copertina è così lontana...

Ecco che ho scritto qualcosa dell'album, e subito torna l'ottundimento, e soprattutto la dipendenza. Degli oggetti dalle sensazioni e viceversa. Come scrollarsi di dosso 30 anni di cascami e lasciarsi toccare di sfuggita? Perché non si vuole essere centrati stavolta, si vuole essere sfiorati. Perché è quello il contatto più struggente.

cLOUDDEAD, 2001

4.12.06

1984


"Un'azione che rimane senza effetto non rimane senza significato.
Se si ama qualcuno, lo si ama, e quando non c'è rimasto più niente da dargli gli si continua a dare l'amore.
Quando l'ultimo pezzo di cioccolata era andato, la madre aveva stretto la bambina tra le braccia.
Non serviva a niente, non cambiava niente, non è che facesse comparire più cioccolato, non riusciva a rimandare o ad allontanare la morte della bambina, o anche la morte di lei stessa: ma le sembrava, comunque, naturale fare quel gesto.
La donna sfollata, nella scialuppa, aveva anch'essa coperto il suo bambino con le braccia, che non sarebbero servite, contro le pallottole, più d'un pezzo di carta"

Per la "dignity of labour", contro tutto e tutti.. dopo tutto.
Io non ho risposte (non chiederci la parola che squadri da ogni lato). So solo ciò che NON sono, ciò che NON voglio.

Sono allergico alla mondanità. E' quello che cerco di dire. Tutte le tragedie, anche quelle più umane e globali, mi sembrano tragedie personali.
E vorrei meno rumore. Ho scelto il periodo dell'anno più sbagliato, forse, per questa voglia di purezza.

George Orwell, 1948

24.11.06

Parabola


Primo disco di Vecchioni.
Il peggio arrangiato, dicono. E invece il basso “appiccicoso”, il piano stonato e filtrato, le tastiere approssimative, il coro registrato male, sono punti di forza di un lavoro amaro e patetico.
Guardare i testi per credere.

Lui se n’è andato:
poteva almeno andarsene in un giorno di sole
poteva far rumore come sempre
poteva non lasciare solo a me le sue paure
poteva dirmi col dolore ho chiuso questa sera

Povero ragazzo:
…tu che in questo istante starai pensando a lei
starai dicendo:"Come dorme bene!"
povero ragazzo! e a lei neppure passi per la mente
mentre grida t'amo
qui, fra le mie mani,
le stelle che le bruciano negli occhi
le braccia strette forte sul mio cuore
per non pensarti, non pensarti più

Eppure quel patetismo è genuino, funziona, e la convinzione del cantautore consente all’ascoltatore di perdonargli il narcisismo e la tautologia.
Luci a San Siro a parte, le idee si sprecano, e c’è un senso musicale morboso, avvolgente, che trova la sua apoteosi negli ultimi due pezzi: la title-track, con un cantato puntuto e istrionico, e soprattutto la perla del disco: una canzoncina chiamata Speranza.
Un’intro gelida al suono del piano trattato e del violino, che è breve zoomata su una scena in un interno, prelude al dramma di quanto sta per aversi. La strofa comincia, è disciolta nel basso e nella tastiera rarefatta, e quando cresce lo fa in modo sinuoso e trascinato.
Il pre-ritornello si apre al patetico che si diceva, e stende un acquerello sentimentale. Poi però arriva il ritornello, tutto in accordi maggiori, ripetitivo e secco, a spezzare il fiato. Il piano giocattolo impazzisce, va sui toni altissimi e disegna pattern infantili, il basso si alza di un’ottava e cambia espressione, tutto diventa un teatrino assurdo, la voce e i cori si alterano e ripetono in cadenza. È un aprosdoketon improvviso e macabro, e non fa che smentire quello che dice. È il fascino della negazione intrinseca. Dire una cosa e negarla nel contempo.
Il disco si chiude dunque così, con un messaggio di speranza che è quella dei disperati. Il testo è bellissimo:

Anche se nella vita voltandomi un mattino
io non ti troverò accanto
a me basta soltanto la tua felicità
Lo conosco il tuo dolore
credevi che oltre il monte ci fosse un giardino
e invece hai trovato soltanto
il fango di una città
Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
e non posso aspettarmi che la ferita si chiuderà
A me basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza,
tu devi vivere!
Nessuno ti ricorda
a nessuno tu manchi
quel ragazzo non può tornare
e per questo soltanto
vorresti finirla lì
Ma guarda che la vita non è la prima porta
aperta in fretta senza bussare
è il balcone più grande
che guarda sul mare
Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
ma mi basta darti speranza

Insomma, un’opera datata, per fortuna, marrone e fosca come la copertina, primo amaro vagito di un poeta che, come accade a tutti coloro che invecchiano nell’arte, passerà attraverso dischi belli e forti (“Ipertensione” ed “Elisir” su tutti) e si annacquerà presto nell’autobiografismo e in un senso dell’eros estenuato e pedante (come è giusto che sia per un anziano); un cammino coerente forse, ma triste.


R.Vecchioni, 1971

6.11.06

Novembre



L'arte è per i poveri.
I nobili sono i calciatori delle palle.
Il mio odio può aspirare a paradosso di bellezza.
Magari non mi salverà, ma sarà decreto al meno.

16.10.06

Meccaniche amorose


Una macchina nuova funziona bene, stupisce l’astante. Il suo automatismo fa pensare ad un’intelligenza fredda, non emotiva, e per questo controllata e superiore.
La macchina può sembrare un’entità super partes, perché mima le azioni degli esseri viventi senza vivere di per sé.

È il super-io postmoderno, dal momento che ogni certezza sembra un discorso spezzato tempo fa e lasciato colare nei tombini.
È normale dunque che gli esseri umani, sempre imprecisi e mediati dai falsi circuiti, vogliano aspirare a quel protofenomeno: l’intelligenza senza emozione.
I canti di amore per le macchine sono in genere struggenti, suscitano inquietudine e stringimento, perché l’amore per una macchina è il simbolo degli amori impossibili.
Il film nel film contenuto in “2046” di Wong Kar-Wai è un lamento sonoro e visivo molto commovente. Le emozioni, protagoniste indiscusse della pellicola, rappresentano nella trama un’evoluzione dell’intelligenza artificiale, e nello stesso tempo (com’è ovvio) un punto debole. Infatti ogni sistema nuovo, essendo avanguardia, è ancora poco evoluto, è sempre prototipo di qualcosa di più raffinato ed esatto.
In aggiunta, risente del principale difetto delle macchine: l’usura e la non-longevità (il parallelismo con la vita umana è ancora più lancinante).
Nel film le emozioni delle macchine, col tempo, diventano “differite”, cioè ritardate. Amare una macchina diventa dunque abolire la contingenza temporale, oltre che la convergenza della specie.
Una lezione ben anticipata dallo sconvolgente e sublime poema di “Blade Runner”.
L’amore di una macchina, o per una macchina, è un bug in un sistema progettato per altro. È un malfunzionamento. Chi ha a che fare con le macchine lo sa, la macchina prima o poi smette di funzionare, o comunque diventa obsoleta. Non c’è scampo.


I Kraftwerk propongono nel 1978 uno dei loro capolavori più longevi, chiamato The Man Machine, imperniato su un’estetica robotizzata e fascinosamente futurista, fin dalla copertina, ispirata al costruttivista tedesco El Lissitzky. Il quartetto propone un’iconografia più che un vero e proprio manifesto.
Il rapporto uomo/macchina è visto non come fonte di alienazione, ma come base di una relazione creativa e di reciproco accostamento. E il chant d’amour è mantrico, ciclico, eterno, è totale. Ascoltare i quasi sei minuti della versione album della title-track per credere.


Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
Man Machine, pseudo human being

Man Machine, super human being
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
The man machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine, machine… machine
Man Machine, pseudo human being
Man Machine, super human being

Kraftwerk, 1978

4.10.06

Etica della rinuncia? Macché...


A certa etica della rinuncia dovrebbe corrispondere una pratica della denuncia.
Fuori da ogni misticismo, ma pervasi da un furore tutto antropomorfo, i Pooh – pur di mascherare l’omosessualità latente di certe loro suggestioni – sciorinano donne, pugni e poesie, mentre il vino va via non si sa come.
Sarebbe un inizio, ma il sogno di mandare a cagare per sempre le donne, alla ricerca di penose “avventure” maschili, trasgressive come una gita al Volto Santo di Manoppello (provincia di Pescara), intrise come sono di “grappa di more” e piazze di “posti dell’est” (generici, che tanto sono tutti posti incolori), svaniscono nel punto più alto del climax, quando il “biglietto per l’avventura” sembra ormai prenotato.

Con un’eiaculazione retrograda, infatti, i pusillanimi fanno marcia indietro: “facciamo che è tardi, non facciamo i bastardi” (good rhyme, compliments!).
È un’ottica rovesciata, dove l’uomo si femminilizza proprio perché vuole ossessivamente definire la propria natura virile. Davvero deprimente.

Castrazione volontaria (voglio Ferreri!!!!), e un senso di tristezza immanente. L'uomo per essere davvero libero dev'essere un uccello (non è una metonimia) che si chiude nella gabbia da solo, rimandando il coraggio dell'esplorazione all'anno prossimo.
Dunque nessuna etica della rinuncia, ma semplice collaborazionismo.
Però è importante mantenere la facciata: da qui l'inquietante (sotto)tono di essere naturalmente dominante, per non farsi dire pirla dagli amichetti: “La tua donna e la mia sono persone”. Alla faccia dell’emancipazione! (this rhyme is better!).
I Pooh parlano delle donne come del loro cane; sembrano sempre pronti a capirne le esigenze e a raccoglierne i bisognini. Ma si è mai visto un cane che porta al guinzaglio un altro cane?

Chi è il cane di chi? La risonanza tra i due può diventare nebbia purpurea... ascoltare i Pooh può essere un'esperienza davvero alternativa, al pari di una droga leggera.
Il gruppo esce nel 1981 con uno dei suoi dischi più farlocchi: "Buona Fortuna" (dev'essere quello che hanno augurato i produttori al blasonato quartetto, dopo aver ascoltato i demo). La title track, scritta da D’Orazio, è indicativa del livello. La fortuna “è della Vergine, e si sa le menate che ha”. Gli 883 devono aver attinto a piene mani da questi solchi.
Ecco il favoloso testo di "Fotografie", tratta dal citato album:

Fotografie: trasparenze di fuori città, torri spagno
le
le chitarre e le birre in collina, l'eclissi di sole.
Fotografie io e te vagabondi nel porto di Barcellona
su di giri di prima mattina, navigando l'estate del sud
nelle fotografie, malinconie, colpi di sole
donne, pugni e poesie mentre qui tutto il vino va via non si sa come
la tua donna e la mia ridono insieme
han già deciso che han chiuso i confini e i nostri treni non partono più.
Fotografie: una piazza di un posto dell'est con le bandiere
una tazza di grappa di more, senza amori né fretta né idee.
Basta fotografie, piccole spie pericolose
un bicchiere di più

torni tu
batti i pugni e vedrai chi siamo ancora
c'è un biglietto per noi per l'avventura
sulla corriera colori che vola chi la perde non parte mai più.
Quante pagine ha la libertà non lo sappiamo
quante volte dirai: mi fermo qui
quanto vento ci sta dentro una vela
non parliamo di noi alla moviola
finito il vino facciamo che è tardi
non facciamo i bastardi perché:
la tua luna e la mia fanno canzone
la tua donna e la mia sono persone
guidando piano portiamole a casa
e poi chiediamo anche scusa vedrai
tutto è meglio così, meglio così

basta malinconie, fotografie.

2.10.06

Andavo nel silenzio prima


Andavo nel silenzio prima
andavo nel silenzio e il suono
si levava dal silenzio
e mi raggiungeva, perché io l'ascoltavo
nel silenzio e stava lì con me
entrando in casa. E noi eravamo insieme
e il buio silenzioso ci sognava.

Patrizia Cavalli, 2006

11.9.06

Profondo Rosso


Cosa c'è alla base della fama del più famoso film di Argento?
I detrattori puntano il dito contro le lungaggini di alcune sequenze (l'ispezione alla villa del bambino urlante), l'assurdità di certi delitti, l'eccessivo fervore, il finale baracconesco (comune a molte pellicole del regista), l'improbabilità dell'assassino.
I sostenitori, dall’altro lato, evocano espressioni quali "poesia della violenza", "controllo formale", "espressionismo", tendendo in questo a confrontare la pellicola con altre del genere. Il film infatti, per essere un "thrilling" (come fu pubblicizzato all'uscita nelle sale, nel 1975), è indubbiamente superiore alla media per sceneggiatura e soprattutto confezione. Il montaggio resta ancor oggi esemplare, il lavoro sul suono mirabile, e anche i tempi sono ottimizzati per l'effett(acci)o finale.
A rivederlo tante volte, comunque, qualcosa indubbiamente sembra non funzionare. Tutto quello che non è semplicemente visivo rischia spesso di appare puerile ed artificiale. E anche le invenzioni pittoriche sono annegate dal sadismo, che sposta l'attenzione e tende a fiaccare i sensi.
Un ottimo film di genere, senz'altro, ma a volte poco distante dal bric-à-brac degli "idioti dell'orrore" (Battiato). È proprio lo spavento generato a indebolire una pellicola che potrebbe avere ambizioni più ampie (non contenutistiche, ma formali) e a farlo restare soltanto un film pauroso. Sarebbe stato possibile allargare l'estetica dell'omicidio e della brutalità ai canoni più ampi della bellezza vista come dramma, scissione (cfr il solito Bacon, o Genet), ma le scelte sono precise, e orientate più all’omaggio al genere che all’arte.
Quindi la paura è il mezzo e il fine. Questo è il limite.
È comunque interessante pensare all'influenza dell'architettura e del design, della moda e del costume sull'attribuzione dell'aggettivo "spaventoso" a quello che si vede.
Il film fa paura perché è vecchio e sporco, perché le luci sono taglienti, le musiche tese, i colori vivissimi (quel sangue di un rosso irreale è ancor più pauroso di quello vero, perché diventa parossismo del concetto di sangue. Come dire: tutto è malato, persino il sangue delle vittime), i dettagli morbosi (i rubinetti, gli specchi incrostati, la puntina del giradischi, le carrellate sui tavoli pieni di oggetti bizzarri e rossi).
Quell'arredamento (vedasi la casa della prima vittima) è funzionale alla storia, persino gli esterni sono tetri, spaventosi, e in ultima analisi tutti gli ambienti, naturali e non, funzionano decisamente.
Nel successivo Suspiria (1977) il décor barocco e coloratissimo - fin nelle luci, a tratti kitsch - e le scenografie pompose e visuali serviranno più da contrappasso che da sostegno. Qui invece le luci violente, i colori scuri, le prospettive sghembe generano una tensione subliminale profonda e duratura, e concorrono a generare il meccanismo della paura.
A qualcuno capita ancora di girare per le città e di inquietarsi a vedere gli androni dei palazzi, "stile profondo rosso", e di provare disagio a trovarsi in quelle strutture. Tale è la forza visiva del film.
La violenza è esplosiva, e poco credibile in certi tratti (avendo a disposizione un'arma affilata, che bisogno c'è di ficcare la testa della vittima nell'acqua bollente?), ma è indubbiamente vincente. La pellicola fa paura perché si sente che quella che rappresenta è la violenza che lo spettatore desidera. Fa paura la propria parte oscura che spinge a non girare gli occhi, ma anzi a guardare attentamente la mano dell'assassino che spacca i denti della vittima contro gli spigoli del camino. Il film tiene cioè conto dell'orrore inconscio, che completa la gamma di quello mostrato, centrando in pieno l'obiettivo di mettere a disagio.
A volte Argento si trova pericolosamente sul margine: ma sa bene che troppa violenza diventa grottesca e genera distacco, e dunque si tiene costante sul bordo. E mostra il massimo tollerabile, e nello stesso tempo credibile. Il regista introduce così una misura nella violenza (tra le pur abbondanti efferatezze).
Cliccare sul link, dove si vede il bellissimo trailer originale:
http://www.youtube.com/watch?v=Bjc1-Co-Fxk

Dario Argento, 1975

6.9.06

Naturträne



Così, ex abrupto, viene fuori Nina Hagen, in una strepitosa esecuzione dal vivo.
Ecco il link: http://www.youtube.com/watch?v=8pZ9LO6df9Q
I suoi dischi sono veri e propri tour de force vocali, sostenuti da una band molto energica. Anche un pezzo stralunato come questo conserva nello stesso tempo l'iconoclastia e l'intensità - appena un po' velata di imbarazzo - di una musica che trova nella forma il suo messaggio più elevato (cfr. Velvet Goldmine di Todd Haynes e tutto il discorso del glam-rock)
[domanda di costume e società: ma perché il trucco del chitarrista-culturista non è stato copiato da nessuno?? è splendido splendente!!]
Seguire il testo, prego, cantando a squarciagola (è proprio il caso di dirlo)…

Offnes Fenster präsentiert
Spatzenwolken Himmelflattern
Wind bläst, meine Nase friert
Und paar Auspuffrohreknattern
Ach, da geht die Sonne unter:
Rot, mitGold, so muss das sein.
Sehe ich auf die Strasse runter,
Fällt mir ein Bekannter ein
Prompt wird mir's

jetzt schwer ums Herz
Ich brauch' nur Vögel flattern sehen
Und fliegt main Blick dann himmelwärts,
Tut auchdie Seele weh, wie schön!
Natur am Abend, stille Stadt
Verknackste Seele, Tränen rennen
Das alles macht einen mächtig matt
Und ich tu' einfach weiterflennen...
Aaaahhhh...

Nina Hagen, 1978

(grazie ad Enrico per la segnalazione)

30.8.06

L'estate sta finendo



La bellezza comincia a non dirmi più niente.
Nemmeno il significato.
La tensione all'assoluto diventa sempre più una ricerca del bar aperto più vicino.
Da nord a sud, da est a ovest, sotto queste stelle o sotto paglie intrecciate, tutti stanno, tutti si trasformano, poi, e cominciano la loro traiettoria.
Tra poco torneranno a scuola i bambini, con gli odori dei libri nuovi che viaggeranno sull'autobus con loro, per le strade che altri occhi vedono caotiche.
La bellezza tornerà a posarsi ovunque, e a tentare un immagine, un contatto, un conato.
Non resta che lasciarsi andare, dicono tuttissimi.
Avrò il coraggio di non lasciarmi convincere?

21.8.06

Stare fuori


Chi sta al margine vede più cose contemporaneamente, essendone però distante (‘blow back, derelict wind’ – Beck). Chi sta al centro deve girarsi tutto intorno per guardare, ma è in mezzo ad ogni cosa.
C’è una tendenza diffusa a volersi buttare (è un po’ l’estate, dicendola tutta, che spinge i timidi a cambiare la muta e farsi farfalloni), e a fare entrare gli altri nella propria sfera personale, dal momento che ormai non c’è più nulla di personale, e dunque tanto vale esibirsi un po’.
L’atteggiamento più funebre, invece, è come sempre quello di fingere. Chiudersi in casa o nel guscio per farsi dire xyz. Un’azione positiva infatti può essere anche una molotov: la morte vera è nella menzogna inesorabile (che diventa menzogna sociale e astratta a un tempo, come piacerebbe a Gide).
L’alternativa scomoda è una solitudine un po’ satirica, senza vergogna e con molta emotività. Stare soli, un po’ come dire stare fuori…

Stare da soli è fare da sè

Un po' per voglia sì, ma un po' perchè
E intanto sale il conto della vita

Tu che la tua sorte non l'hai mai capita
Stare da soli è terra masticata
Ributtare nei polmoni una canzone appena nata
Fare l'amico farsi compagnia
Tendere agguati alla malinconia
Che sia così che va la vita ?
Soli, un po' come dire stare FUORI
Un po' più che un'arte stare soli
Volere bene al tempo
Che ti batte e che ti lascia fuori
Ridere soli è cosa che non va

Come pure fare a calci con la verità
E a mano a mano che si piega il sorriso
Mostrare tutti i tuoi denti al Paradiso
Che sia così che va la vita ?
Soli, un po' come dire stare fuori
Un po' più che un'arte stare soli
Volere bene al tempo
Che ti batte e che ti lascia... fuori,
è più di un anno stare soli

Più di un inverno stare
fuori
Più della faccia di un amore
Che non ti vuole e che ti lascia
fuori.

Ivano Fossati, 1982

3.8.06

Hallo spaceboy


Spaceboy, you're sleepy now
Your silhouette is so stationary
You're released but your custody calls
And I want to be free
Don't you want to be free
Do you like girls or boys?
It's confusing these days
But moondust will cover you
Cover you
This chaos is killing me
So bye bye love
This chaos is killing me
And the chaos is calling me
Yeah bye bye love
Good time love
Be sweet sweet dove
Bye bye spaceboy
Bye bye love
Moondust will cover you


David Bowie, 1995

Space age love songs, “nuove modernità” cantava Diana Est. E pensare che Starman ormai è stata schiacciata dalla litania impavida della merdevisione. “Voglio essere libero”.
Spaceboy you’re sleepy now, your silhouette is so stationary.
Le furberie si sprecano, e gli inquieti si tritticano sulle gambe, sognano il freddo glaciale, la polvere di luna che li ricopra. Si sentono generosi di caos assassino, vogliono pesare sulle esistenze, incombere su qualcuno. Vessare, sfiancare, sfibrare, è il passatempo più ambito. Passa tempo. Togliere sangue al cuore.
Molti altri invece vogliono essere liberi davvero, e non ascoltano queste canzoni e non si fanno affascinare da questi alambicchi.
Le astruserie astronomiche (e astrologiche, per i più economici) sono solo pretesti. Gli Autechre fanno musica vuota. Chi ci vede il sublime è povero. Ma oltre questo cosa c’è?
Leggere Busi mi deprime. È troppo. Non mi va più di scrivere. Comincia l’estate vera.

2.8.06

The Devil in Miss Jones



Miss Justine Jones (Georgina Spelvin), dopo aver osservato il traffico scorrere lento in una giornata piovosa qualunque, chiude le tende, si guarda allo specchio, si sveste, entra nella vasca e si taglia le vene.
In un’aldilà imprevedibile (lo studio di una villa nobiliare, con un tavolo enorme e sedie ottocentesche) un gentleman distinto e dolcemente diabolico le offre da accendere e le concede di tornare in vita per provare i piaceri che si è sempre negata. La signorina Jones è zitella, stagionatella, non bella, e accetta l’esperienza propostale con qualche dubbio.
Tornata nell’aldiqua un personaggio, The Teacher (Harry Reems), la erudirà in anatomia e fisiologia, e un tassello alla volta madamoiselle Jones si libererà della sua corazza e precipiterà nella dannazione vera, quella del lasciarsi andare e seguire i propri sentimenti, attraverso esperienze sessuali esotiche e sempre più parossistiche (con un uomo, poi una donna, due uomini, un tubo da giardino, della frutta, un serpente).
Nel corso di questa sua discesa (o forse ascesa a un’origine inconsapevole) Frau Jones muta di lineamenti ed espressioni. Sempre più Medusa, i suoi capelli si arricciano, il trucco si fa sempre più pesante e disperato. Le sue prestazioni sempre più accorate e urlate. Il sesso è verboso, incontenibile, transustanziato negli oggetti e nei volti anonimi che le orbitano intorno. Il climax è assoluto, erotico come non mai. La musica di Alden Shuman è ispirata e romantica, a sottolineare la componente più negativa dell’atto più godurioso, e riporta alla mente le atmosfere rarefatte e speciali degli eventi speciali e rarefatti che diventano ricordo personale. Mentre si guarda il film ci si eccita con una malinconia panica, sì che il ritorno (a qualunque cosa) sembra un’odissea tragica, velata di una dolcezza animale ed istintiva.
Al termine di questo piccolo tempo concessole, la nostra eroina, al cospetto del gentiluomo luciferino, prova a chiedere la permanenza definitiva sulla terra così piena di sublimi sofferenze.
Ovviamente ottiene un rifiuto, e anzi una feroce condanna, oltre l’umana immaginazione: passare l’eternità a masturbarsi senza mai raggiungere l’orgasmo, chiusa in una cella con un uomo impotente e ossessionato dalle presenze che avverte intorno a sé.
Nel filone dell’esitenzialismo, questo film porno è la vetta ineguagliata della sua vocazione espressionista (cfr. la visione di Roquentin ne “La nausea”).


Gerard Damiano, 1972

1.8.06

Ultra-cultura ultra-(lolli)pop (II) – Bastardo dentro :)


Non sono contento della fine del bastardo dentro :), nonostante non ne avessi mai avvertito la rappresentatività, né il battito. Gli intellettuali dell’ultim’ora hanno lasciato nessuna allegria, nessuna macarena, e “Yo soy Candela” è già cicatrice, sostrato limoso. I cloni fanno tristezza a tutti, e sono causati dalla solita ostilità di chi potrebbe far qualcosa perché il pop diventi cultura e invece stanno a rompere le balle con i sofismi.
L’estate senza il bastardo dentro :) è quasi insopportabile. Odio l’avvicendarsi degli altri mitucci. Fa caldo, e nessuno sfogo… Mi annoio… Nemmeno un bastardo dentro :) per chiacchierar.
La nave affonda, bastardi, figli di zoccola, intellettuali, che il diavolo vi ammazzi nel sangue! Guardate cosa avete fatto! La hola si è fermata a mezzo stadio per colpa vostra, che incrociate le braccia e trasformate l’olio in sabbia! Mi fate rabbia!
Qualcuno ascolti il mio sfogo. Neanche internet è più lo stesso senza il bastardo dentro :) . Torna, torna da noi!
Non lasciarci in balia dell’ennesima estate al mare, con i rivoli di sudore e di grasso che cola. Tu eri così asciutto, bastardo dentro :) che ti muovevi nell’ombra di certe definizioni, negli ambiti più familiari! Sei così inarrivabile. Vorrei sposarti! Marcella Bella ci ha provato a farti un monumento un po’ più duraturo, ma tutti continuano a ricordarsela per quella orribile “Tanti auguri a te”…

Tu, dal tuo canto, non hai fatto niente per resuscitare, quando sei stato richiamato in vita… Ci siamo abbassati alla seduta spiritica e tu niente! Sei proprio una delusione, e lasci nel cuore (oltre al tuo ricordo) tanta tristezza per una modernità infranta. Senza di te la contemporaneità sarà sempre passato prossimo, al più.
Aspettiamo il prossimo mito che rimanga, perché ci siamo scassati la minchia degli addii. Vogliamo amare qualcuno per sempre.
Ti dedico questa canzone, ispirata alla tua dipartita.

Un giorno dopo l'altro
il tempo se ne va
le strade sempre uguali
le stesse case.
Un giorno dopo l'altro
e tutto è come prima
un passo dopo l'altro
la stessa vita.
E gli occhi intorno cercano

quell'avvenire che avevano sognato
ma i sogni sono ancora sogni
e l'avvenire ormai quasi passato.
Un giorno dopo l'altrola vita se ne va

domani sarà un giorno uguale a ieri.
La nave ha già lasciato il porto
e dalla riva sembra un punto lontano,
qualcuno anche questa sera

torna deluso a casa piano piano.
Un giorno dopo l'altro
la vita se ne va

e la speranza ormai
è un'abitudine.
[Luigi Tenco]

Non ti dimenticheremo mai.


Nota: Dopo aver introdotto la mia URL nella barra di quesito di "Google translate", il programma ha tradotto così una delle ultime frasi di questo post: "We wait for the next myth that remains, because we have scassati the minchia of the goodbyes". Che bello!

24.7.06

Ultra-cultura ultra-(lolli)pop (I) - Le femmine aggressive



"Lo scompiglio adesso c’è
dentro nei progetti tuoi
tutto all’aria getto io
o pover’uomo
Così tenero con me
così burbero con chi
non voleva dire sì
come me
Mi credevi tutta tua
mani e piedi stretta a te
e vedermi volar via
che sorpresa
Mi piaceva star con te
ma tu eri solo un flirt
era solo un viaggio

o un week end
Volevi un amore grande
volevi un amore grande
quelli che cambiano una vita
è capitato proprio a te
Pover’uomo cosa fai
non mi dire o mamma mia
che davvero piangerai
non è il caso
Così maschio quando vuoi
un pulcino adesso sei
hai sbagliato tutto ormai
su di me
Volevi un amore grande
volevi un amore grande
quelli che cambiano una vita
è capitato proprio a te"

(Loredana Berté - Volevi un amore grande)

Uno spray in mano, la gommina nei capelli. Vestirsi come Nina Hagen e parlare di argomenti tabù. Gli slogan, il gergo. Il femminismo masticato e sputato, un’ironia ostentata, e soprattutto la “grinta”.
Le femmine degli anni settanta/ottanta sono morte per sempre, sepolte nella carta straccia e nella mente straccia di pochi, uccise annegate dal dilettantismo e dalla disorganizzazione estrema che ha contraddistinto la loro esistenza.
Un tempo infatti c’era un afflato naïf che ispirava le confezioni (messe a punto come sempre dagli uomini e attuati dalle donne sfruttate, ma che pure avevano una dignità), perché c’era la vita all’aria aperta e un’attenzione più spostata agli eventi che agli oggetti. Persino lo squallore, oggi tanto temuto e odiato, era in un certo senso avvertito ed accettato, perché inscritto in una filosofia che allo squallore non dava l’importanza che gli si dà adesso.
Oggi il professionismo ha risucchiato in sé tutte le energie di chi crea e di chi consuma cultura (?) pop.
Il pressappochismo non è più ammesso. Persino il trash (es. er Monnezza e colleghi) deve essere rimontato e mondato. Starsky e Hutch devono essere più belli e le Charlie’s Angels più atletiche. Insomma, bisogna ripulire quell’alone squallido che infesta quei personaggi tanto sublimi.
La panza dei giocatori di calcio dunque, il look arrangiato alla bell’e meglio mezz’ora prima della diretta (in questo consisteva la libertà di un concetto di spettacolo che era leggerezza) sono cancellati e rifatti da capo, con l’orrore dei nostri tempi nella mente.
Oggi tutto è livido e plumbeo. Una trasmissione di intrattenimento diventa così un’estenuato tour de force di gare al più bravo, in frenetico e costante zapping umano. Lo squallore tanto evitato si trasforma così in orrore, allegramente.

[Jo Laudato scrive, a proposito di Old Boy, un bel film del coreano Park Chan-wook: "Regia, montaggio, fotografia, colonna sonora sono praticamente perfetti ma proprio per questo risaltano l’evidente blockbusterizzazione del cinema contemporaneo che ormai non lascia nulla al caso assestandosi su standard di preoccupante professionalità"].
Il nuovo canone ultraprofessional accontenta gli occhi e il cervello di chi si accosta alla vita con un senso di gravità abissale, e riesce persino a divertire le nuove generazioni così spaventate e fuori di sé.

Di contro, questo sistema annulla la fortuna di quei personaggi che potrebbero diventare giustamente famosi ed amati pur essendo tecnicamente eccepibili (Gabriella Ferri oggi verrebbe calciata nel culo. A questa preferirebbero Dolcenera e la depressione a lei correlata) e che in fondo rappresenterebbero l’unico tratto d’unione tra il pop e la cultura pop.
Il discorso sembrerebbe avere qualche incrinatura: ad esempio un tempo anche le canzonette erano suonate con le palle, e non con i computer, e la sigla di un cartone animato te la ricordavi per sempre, e magari ora il marabù di turno ti remixa un riff ispirato a quello squallore reinterpretato.
Sembra un’eccezione, ma non è così. È solo cambiato il centro di attenzione del tutto. Oggi la sigla dei cartoni animati non è un target interessante, non è traino di una massa, i bambini oggi sentono le voci e ricollegano le voci agli schemi, e that’s all. Si lavora su altro, sulla pubblicità, sulla comunicazione, sugli intrattenimenti “adulti”. Quando vorranno plagiare anche i bambini introdurranno le sigle con gli ultrasuoni, ma per ora si accontentano di cambiare il senso estetico di un bambino modificando quello dei genitori (tattica molto più facile, in fondo, e di sicuro risultato).
Insomma, ora è un lupanare, ma chi è stato a cambiare così le cose? Chi è stato il primo?
Un gioco divertente può essere rintracciare un capro espiatorio, uno spartiacque che ha decretato l’inizio della guerra al dignitoso squallore.
Mi viene in mente una possibile risposta, e la butto là: Whitney Houston.
Un brutto giorno qualcuno tentò di spacciare i suoi conati vocali parossistici per pezzi di bravura ed elevò i suoi ultrasuoni a canone estetico, e subito quei suoni striduli furono i termini di una nuova competizione.
Mariah Carey riuscì vincitrice, poiché provò a superarli, e le due gareggiarono per un po’ in un crescendo di virtuosismo nauseabondo, tale che in confronto un disco degli Yes fa pensare al tarocco della Temperanza.
Da allora una sequela di ultrasuonare sgomitanti è avanzata, terzo stato involuto e senza ideazione (altro che le femmine incazzate del rock anni 70), e la radio non le fa stare mai zitte, riempiendoci le strade di infinite variazioni sul tema della melodia (che in fondo è il sottogruppo meno interessante della musica).
Cosa rimane delle femmine bastarde degli anni ’70, che volevano essere sporche e approssimative come i maschi dell’epoca? Un pugno di canzoni:


Fatelo con me
Non so dormire sola
Maschiorama
Codice uomo
Parlate di moralità
Meglio libera
E sputo in faccia ai giorni tuoi
Così se ti va e questo finché mi andrà
S.E.S.S.O.
Un click d'ironia
Fammi toccare
(giochino: due dei titoli me li sono inventati. Quali?)


Per il resto, tanta nostalgia per il dilettantismo e la velleitarietà.
Leggete questa scheda di Jo Squillo, recuperata in rete:


“Vero nome Giovanna Coletti, appartenente alla new wave milanese, nell’ottobre del 1979 formò assieme ad altre tre ragazze il gruppo Kandeggina Gang, dall'accentuato carattere punk. I testi e i loro atteggiamenti, spudoratamente contro il maschilismo, scandalizzarono i milanesi; fra l'altro durante l'8 marzo 1980 rivendicando la distribuzione di tampax gratis, cominciarono a lanciarli macchiati di rosso durante un loro concerto in piazza del Duomo. Il gruppo incise per l’etichetta Cramps il 45 giri su vinile colorato Sono cattiva/Orrore. Nel giugno 1980 Jo Squillo è stata capolista del Partito Rock che si presentò alle elezioni comunali. Lo stesso anno partecipò in Germania al grande raduno di Francoforte Rock contro il Razzismo. Nel maggio del 1981 uscì il suo secondo 45 giri Skizzo Skizzo/Energia interna, pubblicato sull'etichetta indipendente 20th Secret, autogestita con il gruppo dei Kaos Rock, 4 mesi dopo è la volta del suo primo album, Girl senza paura.”
(Dal sito:
http://digilander.libero.it/gianni61dgl/josquillo.htm)

Non vi fa venire le lacrime agli occhi (non per lo sforzo defecatorio…)?

18.7.06

Poco zucchero


Opera sconfessata ed entrata nel numero delle cose della memoria (e basta), Poco zucchero di Faust'O appare all’orecchio dell’ascoltatore moderno un’opera accattivante.
Dimesse le attenzioni per la confezione new wave, che pesca nella pozza arida di un tempo passato in tutti sensi, si apprezza la spinta creativa e assertiva dei testi e delle scelte sintattiche, il piglio freak e il senso generale di convinzione, più a fuoco del precedente (e divertentissimo) “Suicidio”.
Gli arrangiamenti sono come sempre attraenti, in linea con il glamour del disco (a cominciare dalla copertina e dalla grafica radicale). In particolare la sessione di fiati contrappunta le ritmiche sincopate e gelide (Cosa rimane, irresistibile, Kleenex, in una versione désengagée, Funerale a Praga, drammatica e definitiva).
Le chitarre stendono un tappeto di accordi che talvolta si incrociano e risultano epiche (In tua assenza, capolavoro del disco, dai più congelato come scialbo remake di “Breaking glass” di Bowie, o ancora Il lungo addio, struggente capitolazione di un discorso), mentre l’elettronica stende al tappeto ogni stoicismo, sparpagliando il dubbio manicheo che la scelta dello stile sia o meno una chiara impronta dell’onestà dell’ispirazione.
Col senno di poi tutti gli allarmi rientreranno e si tenderà a farne cosa piatta, immeritatamente.
Cosa rimane?


Faust'O, 1979

7.7.06

Easy to slip away


It’s my fault too: I play a hermit’s role
Hardly ever seem to get outside these days
So, dear friends, as we grow on we feel to grow away,
CAN ONLY LIVE IN THE HOPE THAT SOME DAY
IT WILL ALL RETURN,
BUT IT’S SO EASY JUST TO SLIP AWAY
EASY JUST TO SLIP AWAY…


Peter Hammill, 1973

5.7.06

Twin Infinitives


Un monumento alla mela marcia (nel girone filosofico dei recuperisti e gli ottimisti del mio cazzo).
Il solco del disco è pieno di polvere, e il suono è ottuso. Bisogna aspettare che una voglia di pulizia e di rinnovamento arrivi a estrarre il corpo eccetera dalla algogena sporcizia interiore. Per ora però non se ne parla
Un’acredine è giustificata quando è imprecisa e inesatta, quasi illogica, come un’indigestione di vomito. I pezzi di vetro stanno là in mezzo, per terra. Un corpo è rovesciato. L’estate e i soprusi, il sonno e la mancanza di sonno. Questo è Un Disco Per L’Estate.
A che pro parlare di blues e di smembramenti? Il disco dei Royal Trux si chiama Twin Infinitives ed è definitivo e impossibilista. I suoni sono dolorosi. Altro che infinitivo.
Ogni pezzo è un’ischemia. È un disco per gli innamorati, quelli cattivi però.
L’innamoramento finisce. Nei cuori discreti risiede solo l’amore, provvido e tenace. In alcuni casi fertile. Al cuor gentile ripara sempre amore, nel dolce trascorrere dei tempi, tra un trasalimento e l’altro. Il mondo è stilnovista.

E l’innamoramento finisce per tutti. O quasi. Chi fa eccezione se ne vada fuori, e si porti appresso questo disco, e non rompa i marroni alle persone che vogliono dimenticarsi quanto è bello essere per sempre innamorati. Chi è innamorato per sempre è per sempre moribondo. Lasciatelo solo.
Twin Infinitives, 14 pezzi. Una colonna sonora per la vita o per la morte, si può scegliere, è un disco libero, nonostante sia costantemente trafitto dalle forche orribili.
Carica iconoclasta, sì sì, lo so, pietra miliare, “Si!” joyciano alla vita, magari… andatevi a leggere questa recensione, che è scritta bene:
http://www.ondarock.it/pietremiliari/twin.html
Che almeno il mio blog serva a qualcosa.
Io, per me, dico che spero che il disco non finisca mai e tutto il resto finisca presto.


Chances Are The Comets In Our Future
Chances are doors that just open up
I don't just carry for nothing
Ten tons of rain in a plastic cup
Tears unknown that fill oceans
Chances are the comets in our future
While others go on living in the past
The future seems farther away than Jupiter
Does appear through the telescopic glass
You can move so many, many times
Our home is everywhere we've been
Some people like to show humility
Others live in dramatic scenes on ships
Instead of feeling their own dealing and partake
They grow invisible as their soul starts to slip
Away from the center of illumination
That old steel-toothed border upstairs

Royal Trux, 1990

24.6.06

Chris Ware



(cliccare per ingrandire)
I gelosi non sopportano di vedere la felicità, ma soprattutto la grande quantità di cose che travolgono le esistenze altrui.
I fumetti e i disegni di Ware conferiscono la sicurezza della riscoperta dell'educazione alla solitudine. La presenza e il cesello sono ritagliati e fortemente contrastati con lo sfondo, i personaggi somigliano a qualcosa nel nostro immaginario di già sentito o sognato, le storie illanguidiscono, lasciano lontana la gelosia e l'avidità dalle menti, carpiscono l'energia più leziosa ed estrosa, restituendo una tregua spirituale che fa pensare agli esiti della pittura rinascimentale.
L'esposizione al Museum of Contemporary Art di Chicago (maggio 2006) manteneva intatta la struttura ipnotica e spiraleggiante delle strisce, attraverso un'esposizione che correva lungo le 4 pareti della sala, aperta in fasce sopra e sotto i ritagli fitti delle sue opere, ma immersa in un'inattesa clausura.

21.6.06

Morgue - seconda parte (un barlume di critica)


Gottfried Benn, ovvero la liberazione dell’uomo dalla logica aprioristica, per mezzo di una vivisezione cerebrale cruenta e necessaria.
La carne morta è dichiarata ricettacolo di terrene virtù; questa è la vena sanguigna più rossa
del nichilismo più nero.
L’“io” espressionistico è nettamente definito da Benn per mezzo dell’identificazione del vuoto
intorno al “non-io”. Per sottrazione dunque (ma con maniera ed espressionistico furore) si indefinisce il definibile, privando dell’essenziale l’essenza stessa delle cose, rendendole cioè “niente”.

Morgue I: Il piccolo astero

Un birraio annegato fu sbattuto sul tavolo.
Qualcuno gli aveva insinuato tra i denti
un piccolo astero violetto.
Quand’io sul petto
sotto la pelle
con un lungo bisturi
ne tagliai fuori lingua e palato,
devo averlo sospinto, perché
scivolò dentro il cervello lì presso.
Lo infilai nella cassa toracica
tra la segatura
quando ricucimmo.
Nella tua coppa bevi a sazietà!
Dolce riposo a te,
piccolo astero!

Gottfried Benn, 1912